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Ecumenismo come vocazione: mons. Pietro Giachetti

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Monsignor Pietro Giachetti e monsignor Pier Giorgio Debernardi nel giorno dell’ingresso in Diocesi di quest’ultimo (8 novembre 1998)
Monsignor Pietro Giachetti e monsignor Pier Giorgio Debernardi nel giorno dell’ingresso in Diocesi di quest’ultimo (8 novembre 1998)

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Paolo Ribet, pastore valdese, per Finestra ecumenica

Quando mons. Pietro Giachetti giunse come vescovo a Pinerolo nel 1976, il dialogo ecumenico era già cominciato, muovendo i suoi primi passi negli anni ’60 e ‘70. Esistevano anche segnali di apertura all’interno sia della Chiesa cattolica che di quella valdese; ma si trattava di segnali sporadici, che coinvolgevano poche persone e certamente non la base delle Chiese. Il giudice Piercarlo Pazé notava una «durezza dottrinale (da parte cattolica) accompagnata ad una prassi di apertura», che «trova risposta in quegli anni in atteggiamenti del mondo valdese altrettanto duri sul piano dei principi e, in più, diffidenti verso l’apertura della Chiesa cattolica: è convinzione prevalente dei valdesi che la Chiesa cattolica attui dei semplici aggiustamenti ma non si riformi secondo il Vangelo, rimanendo in sostanza eguale».

È interessante la descrizione che lo stesso mons. Giachetti fece della situazione, così come egli la vide e la visse al suo arrivo: «Ho trovato qui, nel momento del mio arrivo, una situazione di freddezza: nella Chiesa cattolica c’erano “punte avanzate” in campo ecumenico, ma erano osteggiate da una parte considerevole sia del clero sia dei laici, che vedevano con sospetto queste “punte” chiamiamole “avanzate”. Io ho cominciato a dialogare con loro e ho visto che stavano facendo un cammino che doveva essere sostenuto dal Vescovo, soprattutto per quello che riguardava due campi che io ho cercato di aiutare il più possibile: quello dei matrimoni misti e quello della lettura della Parola di Dio, fatta nei gruppi che allora, nel momento in cui sono arrivato, si chiamavano “collettivi biblici”. Le idee conciliari sull’ecumenismo stentavano a penetrare e non erano prese sul serio. C’erano mentalità inveterate, difficili da scalfire. Vedevo che anche nella Chiesa valdese c’eranoposizioni di notevole diffidenza».

Notevole diffidenza: l’analisi è appropriata, in quanto in quegli anni nell’ambito della Chiesa valdese il discorso ecumenico con la Chiesa cattolica italiana era visto da molti con sospetto o con fastidio per una serie di motivi. Il primo è che la Chiesa valdese,che pure intratteneva a livello mondiale rapporti cordiali con Chiese sorelle anche molto distanti da lei a livello teologico, riteneva che questo fosse molto più difficile con la Chiesa cattolica, anche perché pareva che non ci fosse reciprocità dall’altra parte. In secondo luogo, fin dagli anni ’60, sul Concilio Vaticano II erano stati espressi giudizi molto differenti da due professori della Facoltà di Teologia di allora: Valdo Vinay, professore di storia, lo leggeva in modo molto positivo, mentre Vittorio Subilia, professore di sistematica, ne dava un giudizio negativo. In genere, nella Chiesa valdese era prevalente questo secondo giudizio. Nel dibattito sull’ecumenismo, poi, anche a livello sinodale, fu da subito operata la scelta a favore di un ecumenismo di base e con le Comunità di Base, che in quegli anni dovevano lottare duramente per avere il loro spazio.

È vero che nel 1970 era stato promulgato il “Direttorio ecumenico per la Diocesi di Pinerolo”, a cura del Vescovo di allora, mons. Santo Quadri. Mons. Giachetti ne dava un giudizio positivo: «Il Direttorio del 1970, non recepito nel momento di crisi, diventava poi un documento profetico per ciò che affermava, cioè che l’ecumenismo non doveva limitarsi soltanto a rapporti tra vertici, a relazioni diplomatiche e a contatti di discussione teologica, ma doveva diventare un dialogo di vita, un dialogo del popolo… Io ho cercato di favorire, per quanto mi era possibile, il dialogo della vita che consiste nel conoscere il fratello, nell’amarlo, nel fare un tratto di cammino insieme, nel fare insieme tutto quello che è possibile, nel considerare il diverso non come un nemico, ma come un dono che Dio mi fa perché io mi arricchisca, perché io corregga con lui vicendevolmente, senza che nessuno dei due perda la propria identità».

Sono parole che esprimono chiaramente il percorso che mons. Giachetti compirà durante il suo ministero pastorale a Pinerolo.

Ho usato l’espressione “percorso” in quanto, per sua stessa confessione, mons. Giachetti fino al suo arrivo a Pinerolo non si era mai interessato in modo approfondito di ecumenismo (si era occupato dei problemi del mondo del lavoro), tanto che ha ricordato la necessità per lui di una “conversione” alla quale, per la verità, fu preparato da due opposte esperienze. La prima è stata un’esperienza positiva: pochi mesi dopo il suo insediamento egli si recò a Roma per la sua prima udienza personale con papa Paolo VI che gli disse: «Si ricordi che la Diocesi di Pinerolo ha una vocazione ecumenica». La seconda non fu ugualmente positiva, come lo stesso mons. Giachetti ha raccontato durante una conversazione al SAE di Verona: «quindici giorni prima di venire a Pinerolo, sono stato chiamato a Roma dal cardinale Prefetto della Sacra Congregazione dei Vescovi, il card. Baggio: chissà cosa voleva … Avevo già adempiuto tutte le cose, persino il giuramento. Il Prefetto mi ha detto: “Le debbo parlare di Pinerolo”; ed io: “Ah sì? E cosa deve dirmi?”. Il cardinale: “Guardi che lei va in una Diocesi dove c’è un grande problema: ci sono i valdesi!” … Io, impaurito, ho chiesto: “E adesso, cosa faccio?”; lui mi ha risposto: “Sa, lei sta lì due o tre anni, e dopo la cambieremo”. Allora io ho detto: “Senta, queste parole io non le accetto! O vado per restarci, oppure mi cancelli, mi tolga l’incarico”».

Tra queste due prospettive dell’ecumenismo come vocazione o dell’ecumenismo come problema, mons. Giachetti ha scelto decisamente la prima. E intraprese quindi un percorso di conoscenza e di approfondimento.

Abbiamo già detto come mons. Giachetti intendesse l’ecumenismo soprattutto come un incontro di persone. Per questo motivo egli si mosse innanzitutto in due direzioni: conoscenza del mondo valdese e conoscenza del dibattito ecumenico. Sul primo frontesi impegnò studiando la storia valdese ed incontrando le personalità più in vista del mondo valdese delle Valli. Sul secondo fronte decise di partecipare alle sessioni estive del SAE di cui sarà un appassionato frequentatore per almeno una ventina di anni. Così egli ricorda quell’esperienza: «A La Mendola ho conosciuto tantissime persone: cattolici, laici, sacerdoti, qualche vescovo, parecchie suore, pastori valdesi, battisti e di altra denominazione. Mi sono fatto quindi un’esperienza di contatto, di rapporti personali». Particolare fu la sua amicizia con il past. Glen Garfield Williams, già Segretario Generale della KEK (Consiglio delle Chiese d’Europa).

Inoltre, richiese a mons. Ablondi, allora Vescovo di Livorno e presidente della Commissione Episcopale per l’Ecumenismo e il Dialogo, di essere cooptato nella Commissione, perché – sono parole sue - «Pinerolo non può starne fuori! Qui ci sono problemi di rapporti ecumenici che vanno portati a livello nazionale!».

Va ricordato infatti che la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (SPUC) del 1988 fu preparata da un gruppo di lavoro misto proprio alle Valli – unica volta in Italia. Il tema indicato dal gruppo di lavoro fu: “L’amore scaccia la paura”. L’occasione, oltre a unire maggiormente le due comunità, ha costituito un riconoscimento importante per la prassi ecumenica a Pinerolo. 

Vorrei terminare la mia esposizione con alcune note brevi e disordinate, più “interne” al territorio del Pinerolesi ed alcuni ricordi personali.

Per diversi anni mons. Giachetti partecipò, a titolo personale, al culto di apertura del Sinodo valdese - una presenza che, dopo parecchio tempo, portò la Chiesa valdese a invitare ufficialmente la CEI. Negli ultimi anni del suo ministero, poi, mons. Giachetti cominciò a partecipare nelle Chiese valdesi ai culti del XVII Febbraio - giorno in cui si ricorda la concessione dei diritti civili ai Valdesi nel 1848, da parte del re Carlo Alberto. Era un passo verso la riconciliazione delle memorie. Ed era fatto in umiltà, secondo il suo stile.

Uno dei momenti più belli vissuti a Pinerolo è stato quando si celebrò insieme la Veglia di Pentecoste. Era stato organizzato un corteo che attraversava le vie della città (con le chitarre in testa, oltre al vescovo e al Pastore) che si diresse dal Duomo verso il Tempio valdese, dove si visse un momento di culto molto articolato e vario, che non aveva niente delle ripetizioni liturgiche che di solito si hanno nelle celebrazioni ecumeniche. Fu un bel momento di spontaneità, una sorta di happening ecumenico, in cui ognuno poté vivere libero da condizionamenti la sua lode al Signore. L’esperienza fu ripetuta l’anno successivo, poi si tornò alla “normalità” …

Se posso dire una parola di conclusione a questa esposizione molto sommaria, mi pare di poter affermare che l’attività di mons. Giachetti in campo ecumenico è stata segnata in modo particolare da due qualità: la volontà e la sensibilità. La volontà l’abbiamo già rimarcata, a titolo esemplificativo, nella sua costanza nella presenza ai culti di apertura del Sinodo, nonostante le delusioni e nonostante questo sembrasse non portare a niente. La sensibilità la riscontriamo in un fatto che può sembrare marginale e insignificante: quando decise di invitare dei delegati valdesi con diritto di parola al Sinodo diocesano (già questo era un fatto significativo!), mons. Giachetti non invitò due persone a lui gradite o due pastori (come spesso è abitudine fare), ma rispettò l’ordinamento valdese, inviando l’invito alla Commissione Esecutiva Distrettuale, la quale mandò la sua delegazione: due donne.

In un’intervista a Marcella Gay, una delle due delegate valdesi, Diego Righetti, che ha scritto una bella tesi sulla pastorale ecumenica, fa questa domanda: «Uno degli assi portanti dell’azione pastorale di Giachetti può essere individuato nel tentativo di coinvolgimento e promozione dei laici. Le sembra che l’ecclesiologia valdese lo abbia aiutato in questo?», a cui Marcella Gay risponde: «Io credo che il nostro modello lo abbia aiutato, senza per questo dire che lui ci abbia copiati o che abbia voluto trasformare la sua comunità in una comunità valdese. Giachetti ha dato spazio a virtualità già presenti nella comunità cattolica. La partecipazione al sinodo in qualità di delegata fraterna mi ha permesso di notare che le maggioranze che di volta in volta si formavano attorno alla varie istanze poste a voto, cambiavano. Cioè la gente votava perché era convinta e non perché si doveva votare tutti insieme o perché si doveva votare così e così … Questo avviene anche da noi…» ed aggiunge: «Giachetti ha saputo essere padre di chi voleva rapportarsi a lui in questo modo e fratello con chi lo vedeva con questi occhi. Facendosi così “tutto a tutti”».

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