Lev Gillet - "Un monaco della chiesa d'oriente"

Lev Gillet
Lev Gillet

testimone di unità nell’Amore senza limiti

Lev Gillet, meglio conosciuto come “Un monaco della chiesa d’oriente”, firma anonima di molti dei suoi scritti spirituali, nasce a Saint-Marcelin nell’Isère (Francia) il 6 agosto 1893 da una famiglia di fervente tradizione cattolica e viene battezzato con il nome di Louis. Terminati gli studi primari e secondari nelle scuole cattoliche locali, consegue brillantemente una licenza in filosofia a Grenoble e nel 1913 si trasferisce a Parigi, dove segue le lezioni di Bergson. Allo scoppio della prima guerra mondiale, nell’estate del 1914, è arruolato e inviato sul fronte dei Vosgi. Ferito e fatto prigioniero, trascorre tre anni nei campi di prigionia in Germania, dove conosce alcuni russi, con i quali perfeziona la conoscenza della lingua russa e della loro cultura, che già lo appassionano. Agli inizi del 1917, è evacuato in Svizzera, paese neutrale, e ottiene l’autorizzazione a risiedere a Ginevra, dove intraprende studi di psicologia e psicanalisi (traduce in francese L’interpretazione dei sogni di Freud). Entra in contatto con le chiese locali riformate, discernendo i primi segni della sua futura vocazione.

Rientrato in Francia alla fine della guerra, è presto attirato dalla vita monastica, e nel gennaio del 1920 entra nel monastero benedettino di Clervaux (Lussemburgo); pochi mesi dopo, all’inizio del suo noviziato, passa all’abbazia di Farnborough, nel sud dell’Inghilterra, retta dal celebre dom F. Chabrol e attivamente impegnata nel rinnovamento liturgico. Oltre alla formazione monastica, dedica una parte del suo tempo al lavoro intellettuale: l’abate lo incarica di una nuova traduzione della Regola di Benedetto, poi pubblicata nel 1924 con la prefazione di dom A. Wilmart. Alla fine del 1921 è inviato al Collegio Sant’Anselmo di Roma per completare la sua formazione teologica. Qui si lega di amicizia con altri due benedettini, Lambert Beaudouin e Olivier Rousseau, futuri iniziatori del “Monastero dell’Unione” di Amay-Chevetogne, con i quali fin da subito condivide il desiderio di impegnarsi nella promozione dell’unità, soprattutto nei confronti delle chiese slave, dalla cui spiritualità si sente da tempo attirato. Decisivo è l’incontro con il metropolita Andrej Szeptyckij, arcivescovo di Leopoli e primate della chiesa greco-cattolica rutena, che propugna la restaurazione di un monachesimo autenticamente orientale in seno alla sua chiesa, per farne uno strumento di rivitalizzazione ecclesiale e di riavvicinamento con l’ortodossia. È il momento in cui a Roma il gesuita Michel d’Herbigny, con ben altri metodi, trama per una politica unionista con cui sogna una “conversione in massa” della Russia scossa dalla rivoluzione bolscevica. Rientrato in Inghilterra, il giovane monaco si rende conto che i suoi progetti “orientali” non sono condivisi dal suo abate e, alla vigilia dei voti solenni, lascia Farnborough; nel settembre 1924 raggiunge il metropolita Szeptyckij a Leopoli, dove pronuncia i voti monastici definitivi nel monastero “studita” da lui fondato, assumendo il nome di Lev; e poco dopo è ordinato diacono e presbitero. Per alcuni anni lavora a fianco del metropolita, mantenendosi in stretto contatto con i suoi amici benedettini che nel frattempo hanno dato vita al Monastero dell’Unione. Ma le intenzioni di Roma nei confronti delle chiese slave lo inquietano sempre di più, e presto si rende conto che la sua visione ecumenica, fondata sul riconoscimento dell’unico necessario comune a tutti i cristiani, è inconciliabile con l’unionismo cattolico ufficiale: nel gennaio del 1928 l’enciclica di Pio XI Mortalium animos condanna il movimento ecumenico chiamando le chiese ortodosse “scismatiche” a rientrare in seno alla chiesa cattolica. Entrato così in una profonda crisi, dopo un breve periodo trascorso nel sud della Francia, viene in contatto con l’ambiente dell’emigrazione russa e con l’Istituto di teologia ortodossa Saint-Serge di Parigi, e dopo matura riflessione, chiede di essere accolto nella comunione ortodossa: il 25 maggio 1928 il metropolita Evlogij concelebra con lui l’eucarestia, senza imporgli alcun atto di abiura né alcuna reiterazione sacramentale. Quest’atto, compiuto da lui in coscienza e rimasto incompreso dai più, raffredda per lungo tempo i suoi rapporti con i suoi amici benedettini e con gli ambienti ecumenici: lui stesso affermerà sempre di non aver rinnegato la chiesa del suo battesimo e continuerà a considerarsi in comunione spirituale con essa al di là della separazione canonica.

Tra il 1928 e il 1938 Lev Gillet serve umilmente la chiesa ortodossa in Francia, assumendo la responsabilità della prima parrocchia ortodossa di lingua francese, svolgendo un intenso ministero di paternità spirituale (è anche nominato cappellano delle carceri per i detenuti ortodossi) ed entrando in contatto con pensatori russi come Nikolaj Berdjaev e Sergej Boulgakov, primo rettore dell’Istituto Saint-Serge, del quale traduce in francese il libro L’Ortodossia (1932). È un periodo in cui stringe amicizie con persone che lo accompagneranno per il resto della vita, come i giovani teologi Vladimir Lossky e Pavel Evdokimov, e la sua futura biografa Élisabeth Behr-Sigel. Intensa anche l’amicizia con Mat’ Marija Skobcova, singolare figura di monaca, della quale ammira la carità e la vita interamente spesa per poveri (morirà in campo di concentramento per l’aiuto dato ai bambini ebrei e sarà canonizzata dal Patriarcato ecumenico nel 2004): per tre anni risiede accanto a lei nel suo “monastero” sui generis a Parigi, svolgendovi funzioni di cappellano.

Verso la fine del 1937 una depressione psichica e spirituale lo spinge a lasciare Parigi in cerca di un nuovo ministero: nel febbraio 1938, con la benedizione del metropolita Evlogij, si stabilisce a Londra come responsabile dell’Holy Trinity’s Vicarage, una casa di accoglienza per ebrei e cristiani di origine ebraica in fuga dalle persecuzioni naziste. Tra la fine degli anni trenta e la fine della guerra si interessa ai rapporti tra cristianesimo ed ebraismo, impegnandosi nel dialogo interreligioso con le comunità ebraiche inglesi e ricoprendo funzioni, per circa dieci anni, all’interno dell’Istituto cristiano di studi ebraici. Frutto di questi intensi contatti è Comunione nel Messia (1942), libro allo stesso tempo erudito e impegnato, attraversato da un profondo afflato spirituale e profetico.

Fin dai primi anni del suo soggiorno londinese padre Lev partecipa alle attività della “Fellowship of St. Alban and St. Sergius”, organismo ecumenico fondato nel 1928 per promuovere il dialogo tra la chiesa anglicana e l’ortodossia: offre regolarmente delle apprezzate “meditazioni” bibliche, in cui dà prova di rara capacità di penetrazione della Parola. In questo contesto è sollecitato a scrivere una breve Introduzione alla spiritualità ortodossa (1945). Nel 1948 si trasferisce presso la Saint Basil’s House, sede della Fellowship, di cui diventa il “cappellano” ortodosso. Rifiutandosi di “vivere dell’altare”, per oltre trent’anni guadagna quel poco di cui ha bisogno redigendo notizie bibliografiche per lo Spalding Trust, organismo specializzato nello studio delle grandi religioni: quando è a Londra, perciò, trascorre le sue giornate nella biblioteca del British Museum.

Dopo la seconda guerra mondiale, è spesso in viaggio: in Francia anima i ritiri della “Fraternità ortodossa”; tiene corsi all’Istituto Saint-Serge di Parigi e all’Istituto ecumenico di Bossey in Svizzera; a Ginevra visita regolarmente un gruppo di intellettuali che si riunisce attorno a lui; spesso visita Gerusalemme, e nel gennaio 1964 è presente all’incontro tra papa Paolo VI e il patriarca ecumenico Athenagoras, che ha contribuito in parte a preparare; a Costantinopoli entra in amicizia con lo stesso patriarca che nel 1965 gli affida l’incarico di assistente spirituale di Syndesmos, la federazione mondiale dei movimenti giovanili ortodossi. Ma è in Libano che padre Lev dà il meglio di sé, con un intenso ministero di predicazione (che si estende, a più riprese, tra il 1946 e il 1978), in particolare nel quadro del Movimento della gioventù ortodossa (Mjo): in questo contesto nascono scritti come Sii il mio presbitero (1962); L’anno di grazia del Signore (1972); Note sulla liturgia (1973); Il Padre nostro (s.d.). Le sue conoscenze internazionali e la stima di cui gode a più riprese fanno parlare di lui come di un possibile vescovo, ma egli non fa nulla per favorire il progetto ed esso non si realizza.

Incessante passeur e costruttore di ponti tra mondi separati, anche in Inghilterra padre Lev intesse rapporti ecumenici ad ampio raggio, ben al di là delle grandi chiese tradizionali (ama visitare ad esempio le chiese pentecostali e i quaccheri, di cui apprezza l’autenticità e la semplicità evangeliche) e intrattiene rapporti con credenti di altre religioni e agnostici, questi ultimi soprattutto nel quadro degli incontri informali di Hyde Park. Dal 1961 al 1965 è segretario del Congresso mondiale delle fedi (Wcf) con sede a Londra, per il quale più volte al mese organizza degli incontri interreligiosi.

Al termine della seconda guerra mondiale padre Lev, dopo lunghi anni di silenzio, riannoda i suoi rapporti di amicizia con Chevetogne, che a partire dal 1947 pubblica sulla rivista Irénikon alcuni suoi articoli sulla “preghiera di Gesù”, firmati “Un monaco della chiesa d’oriente”, e poi confluiti nel libro La preghiera di Gesù (1951): più volte rieditato, tale libro contribuisce non poco a far conoscere in occidente quest’antica pratica, al cuore della spiritualità ortodossa. Negli anni successivi vedono la luce a Chevetogne altri piccoli libri di grande spessore spirituale, che decreteranno definitivamente il successo editoriale del “monaco della chiesa d’oriente”: Gesù: brevi considerazioni sul Salvatore (1960); Presenza di Cristo (1961); Il volto di luce (1966); Amore senza limiti (1971); Guarderanno verso di lui (1976); La colomba e l’agnello (1979).

Ciò che più sorprende e lascia ammirati nei libri del “Monaco della chiesa d’oriente”, oltre al suo stile inconfondibile, al suo afflato mistico e alla sua genuina testimonianza di fede, è il fatto che, pur partendo da una tradizione spirituale ben definita e precisa, come quella ortodossa, egli è capace di ascoltare e di assimilare le influenze più diverse. Per rendersene conto basta guardare gli autori che cita o a cui allude: dai padri della chiesa ai rabbini, da Dante a Lutero, da Buber a Simone Weil, da Teilhard de Chardin a Tagore, da Serafino di Sarov a Teresa di Lisieux, da Charles de Foucauld al Corano… E tutto questo senza alcun sincretismo, ma per un vivo desiderio di riconoscere e far emergere il Lógos spermatikós, la Parola disseminata ovunque, quell’Amore senza limiti, secondo una formula a lui cara, che forza, scardina, abbatte ogni limite in cui cerchiamo di rinchiuderlo.

Nella sua Introduzione alla spiritualità ortodossa padre Lev fa una rassegna dei grandi mistici e spirituali della Chiesa orientale e occidentale, antica e moderna, istituzionale e marginale, includendovi “le intuizioni profondamente cristiane e quindi ortodosse” di cristiani evangelici come George Fox, Nicholas Zinzerndorf, John Wesley, William Booth e Sadhu Sundar Sing... Egli del resto era convinto che i santi delle diverse tradizione cristiane sono i testimoni dell’unità, perché “una vita spirituale genuina e intensa è la via più breve e più sicura per la ri-unione”. Se talora la spiritualità e la teologia ortodossa possono dare un’impressione di autosufficienza e quasi presentarsi come monolitiche, il “monaco della chiesa d’oriente”, senza rinunciare a nulla di ciò che in esse è essenziale, ha saputo “aprirle” con delicatezza, larghezza d’animo e sapienza, senza sdegnare il dialogo con nessuno, ma cercando di discernere in tutti la voce di Cristo e la parola dell’evangelo. Per lui, come per il patriarca Athenagoras, suo maestro e amico, “ortodossia significa libertà, e gli uomini liberi vanno avanti senza tradire la loro fede e i loro ideali. Coloro che si trovano rinchiusi nelle trincee hanno paura, perché non credono alla propria forza” (cit. in A. Panotis, Les Pacificateurs, Athènes 1974, p. 156).

Lev Gillet muore il 29 marzo 1980, vigilia della domenica delle Palme e memoria della resurrezione di Lazzaro: si spegne nella pace, dopo aver celebrato per l’ultima volta l’eucaristia nella piccola cappella, dove una monaca iconografa (sr. Joanna Reitlinger) interpretando il suo pensiero ha raffigurato insieme i santi d’oriente e d’occidente, simbolo di un’unità già esistente presso Dio al di là delle divisioni umane.

Per approfondire:

E. Behr-Sigel, Lev Gillet: “Un moine de l’Église d’Orient”. Un libre croyant universaliste, évangélique et mystique, Paris 1993.
Un monaco della chiesa d’oriente, Il roveto ardente, Magnano 2014.
Un monaco della chiesa d’oriente, Rivolti a Gesù, Magnano 2017.
Père Lev Gillet, « Un Moine de l’Église d’Orient », pagina monografica

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