Dove finisce l'autorità della chiesa
Su ogni forma di obbedienza cristiana deve sempre e comunque regnare il vangelo e tutto deve essere sottoposto al vangelo
La Repubblica, 3 aprile 2007
“Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (Atti 5,29). Questo grande principio biblico sull’obbedienza ha un carattere profondamente liberante. Nella visione biblica, infatti, l’obbedienza è inscindibile dalla libertà: solo nella libertà si può obbedire, e solo obbedendo al vangelo si entra nella pienezza della libertà. Ma come si declina questa obbedienza resa a Dio e alla sua Parola contenuta nelle Scritture, unica norma normans dell’obbedienza cristiana? Come si discerne se il comando che viene “dagli uomini”, da un’autorità preposta, è conforme al vangelo o lo contraddice? Risolvere la questione come fece il cardinal Bellarmino - “Se anche il papa errasse comandando dei vizi e proibendo delle virtù, la chiesa è tenuta a credere che i vizi siano buoni e le virtù cattive” (De Romano Pontifice IV,2) – significherebbe commettere una gravissima omissione di responsabilità cristiana e imboccare la strada dell’idolatria. Ben altra l’indicazione offerta da Francesco d’Assisi ai suoi: “i frati obbediscano ai loro ministri in tutte quelle cose che hanno promesso a Dio di osservare e che non sono contrarie alla coscienza e alla regola” (Regola bollata 10).
Per cogliere il proprium cristiano dell’obbedienza è allora opportuno ricordarne l’aspetto antropologico. Vi è infatti un’obbedienza fondamentale che ogni uomo è chiamato a fare alla propria storia, alle proprie origini, al proprio corpo, alla propria famiglia, insomma a una serie di situazioni e persone, tempi e luoghi, eventi e condizioni che l’hanno preceduto, fondato, e su cui egli non ha avuto alcuna presa o possibilità di scelta e di decisione. Si tratta dei bagagli che la nascita fa trovare già pronti a chiunque viene al mondo e che lo accompagneranno nel cammino dell’esistenza. Un credente legge questa obbedienza come “creaturale” e vi riconosce quell'accettazione dei limiti che è costitutiva della creatura di fronte al Creatore e che consente all’uomo di diventare uomo fuggendo la tentazione della totalità, cioè di ergersi a Dio. Il senso del racconto della Genesi sulla proibizione di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male è esattamente questo: l’essere umano è tale nella misura in cui non ambisce il tutto. Il limite, il finito è l’ambito della sua relazione con Dio.
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