Vanagloria, il tarlo dell'apparire
06 gennaio 2008
di ENZO BIANCHI
Una domanda: per chi e per che cosa si agisce?
La Stampa, 6 gennaio 2008
Una società come la nostra, afflitta dal male oscuro dell’acedia, della nausea del non-senso è paradossalmente malata anche del morbo opposto, la vanagloria, il tarlo che corrode il nostro rapporto con il fare, appiattendolo sull’apparire. Certo l’acedia scaccia la vanagloria e la vanagloria l’acedia, ma entrambi questi vizi saturano l’aria che respiriamo oggi. Già Evagrio considerava la vanagloria (kenodoxía) all’opposto dell’acedia: “L’acedia snerva il vigore dell’anima, ma la vanagloria rinvigorisce la mente, se è malata la risana, e rende il vecchio più robusto del giovane, purché siano presenti numerosi testimoni”. Così, se l’acedia è atonia, la vanagloria provoca una sorta di iper-tonia: in noi si risvegliano il vigore e la forza, e tutto in vista della lode, dell’applauso altrui. La vanagloria è davvero una tentazione sottilissima e assai difficile da discernere, un vizio multiforme che ci attacca da ogni parte, che “come l’edera, si abbarbica e sottrae la linfa che sorge insieme alle virtù, e non si allontana finché non ne abbia reciso la forza”. La vanagloria, malattia tipica di chi si crede virtuoso, malattia degli ipocriti, è in fondo una forma di prostituzione: tutto ciò che si fa, lo si fa per farsi vedere, per ostentazione, per “l’immagine”.
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