Eremiti oggi, il fascino imperituro del «deserto»

Olio su tela  cm 28x28  - 2007
DANIEL LIFSCHITZ, L'eremita
Avvenire, 9 marzo 2008
di ENZO BIANCHI

Ritirarsi in disparte, non condividere il modo di pensare e di agire della maggioranza, accettare la prova

Avvenire, 9 marzo 2008

Fin dalle origini della vita monastica l’eremitismo è letto e interpretato in modo ambivalente: da un lato lo si considera la forma eccellente di vita monastica, adatta a pochi, d’altro lato se ne scorgono i limiti nell’annessa impossibilità a servire i fratelli nel quotidiano e nel rischio di scambiare la volontà propria con quella del Signore. Proprio per questo la tradizione monastica d’occidente come d’oriente – dalla Regola di Benedetto fino alla prassi contemporanea nel deserto egiziano – ha sempre ritenuto possibile l’approdo alla vita eremitica solo dopo un tempo prolungato di vita comunitaria e l’assenso di un padre spirituale. Storicamente così è avvenuto molte volte, continua ad avvenire e sarebbe per certi versi auspicabile che sempre avvenisse. Ma anche l’inverso è attestato: quasi tutte le nuove forme di vita cenobitica – a cominciare da Benedetto stesso – hanno origine dal ritirarsi nel deserto dell’eremo di un uomo solo, che abbandona tutto e tutti e che soltanto in seguito viene raggiunto da alcuni discepoli per i quali accetta di fare da guida e di stendere una “regola” di vita. Così il cenobio nasce spesso da un eremita e successivamente può favorire la nascita di nuovi eremiti, non senza aver prima generato cenobiti: appare allora tutta la fecondità di questa tensione dialettica, a volte vissuta o interpretata solo in termini di rivalità o preminenza.

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