Per cosa combatte il Tibet

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La Stampa, 20 marzo 2008
di ENZO BIANCHI
Si rivoltano per ribadire che esiste “qualcosa per cui vivere, abbastanza grande per cui morire”

La Stampa, 20 marzo 2008

“Etichettando come nemici le autorità cinesi, potremmo pronunciare una ipocrita condanna della loro brutalità, ma non è così che si ottengono la pace e l’armonia”. Risuonano tragicamente attuali queste parole che il Dalai Lama va ripetendo ormai da cinquant’anni – una delle occasioni più vicine a noi nello spazio e nel tempo è stata la sua conferenza a Milano nel dicembre scorso su La pace interiore e la nonviolenza – ma proprio per questo il poco che ci è dato di conoscere degli eventi di questi giorni in Tibet riveste una drammaticità estrema. Un popolo pacifico, con una propria lingua e cultura – intesa come modo di porsi di fronte agli eventi della vita quotidiana e alle attese ideali – con una religione intrinsecamente nonviolenta, subisce da decenni aggressioni di ogni tipo, le più pericolose delle quali sono quelli interiori e morali: il fatto che periodicamente folle di giovani e meno giovani, di monaci e di civili si ribellino con proteste prive di qualsiasi possibilità di successo, andando incontro a feroci repressioni, può sorprendere noi occidentali così devoti al calcolo, all’opportunismo e alla Realpolitik, ma dovremmo chiederci se in queste sommosse, regolarmente soffocate nel sangue, non ci sia qualcosa di più profondo della forza della disperazione, qualcosa di ben più nobile di una umana, comprensibilissima esasperazione.

Pubblicato su: La Stampa