Stranieri a noi stessi

Olio su faesite, 1935ca.
QUINTO MARTINI, I mendicanti della via Giambologna
La Repubblica, 10 giugno 2008
di ENZO BIANCHI
Oggi la sfida è per tutti quella di articolare verità e alterità nel senso della comunione, dell’ascolto e dell’incontro, non dell’esclusione, dell’arroganza e dell’autosufficienza

La Repubblica, 10 giugno 2008

“Stranieri e pellegrini”, così l’autore della Prima lettera di Pietro si rivolge ai propri fratelli nella fede presenti nella diaspora dell’Asia minore nel primo secolo dell’era cristiana. Termini che non mirano soltanto a indicare metaforicamente quanti “non hanno quaggiù una città stabile ma cercano quella futura” nei cieli, ma che tengono conto della reale composizione sociologica delle prime comunità di discepoli di Gesù di Nazaret: schiavi e liberi, giudei e greci, mercanti e artigiani, partecipi di fermenti e mobilità lavorative e abitative che possono oggi apparirci sorprendenti. Del resto, già l’Antico Testamento aveva usato il paradigma della stranierità e del peregrinare per plasmare l’identità del popolo di Israele, facendo di un insieme di eventi storici del passato più o meno mitico una cifra di comprensione del presente. Così una volta installato nella “terra promessa”, il popolo dovrà ripetere a se stesso e davanti a Dio questa ricostruzione della propria vicenda: “Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa...” e agli stessi patriarchi di Israele la Lettera agli Ebrei attribuirà la condizione di “stranieri e pellegrini sopra la terra”.

Pubblicato su: La Repubblica