Perchè il sale cristiano non perda sapore
di ENZO BIANCHI
Senza questa vigilanza, senza il discernimento tra ciò che è bene e ciò che è male per me, per gli altri, per l’insieme della convivenza, i cristiani
La Stampa, 15 giugno 2008
Nel faticoso procedere del dibattito sulla presenza dei cristiani nella società, sulla loro influenza e visibilità e sulla laicità delle istituzioni si avverte a volte il rischio di un fraintendimento delle rispettive posizioni, una precomprensione di alcuni termini o l’applicazione al linguaggio dell’altro di schemi mentali che non gli appartengono. Sono le normali difficoltà di un dialogo che non sia semplice sovrapporsi di due monologhi, ma perché questo rischio congenito non trasformi il dibattito in un dialogo tra sordi è necessario l’ascolto di ciò che l’altro dice e di come si definisce, la volontà di capire in profondità anche al di là delle espressioni usate, lo sguardo capace di abbracciare ambiti e periodi storici più ampi del contingente: l’arte del dialogo è ben altra cosa della retorica raffinata.
Sono difficoltà di questo tipo che mi paiono affiorare con particolare frequenza quando si riflette sulle immagini di “chiesa” presenti nel vissuto e nell’immaginario della realtà italiana e che finiscono troppo spesso per essere contrapposte. Non mi riferisco tanto alla sbrigativa identificazione che i media normalmente fanno tra “chiesa” e “gerarchia” o parti di essa, né intendo affrontare qui il pur importante argomento del ruolo del “laicato” all’interno della chiesa cattolica, penso invece a un’ambiguità che ricompare sovente quando la lettura dell’impatto del cristianesimo nella nostra società evoca le esigenze radicali del vangelo. Non manca infatti chi, al solo sentirle nominare, le cataloga come pretese elitarie che si contrapporrebbero a una “buona notizia” alla portata di tutti. Ora, fin dal suo primo apparire storico e dalla sua rapida diffusione, il messaggio cristiano non è mai stato riservato a un’élite, né intellettuale né economica. Questo però non significa che non sia possibile una riflessione sulla qualità della testimonianza resa dai cristiani, sulla loro coerenza con le parole e le azioni di colui che confessano come loro Signore. Così come dovrebbero esistere dei modi più articolati di quelli desumibili dalle anagrafi parrocchiali per i battesimi e i matrimoni per “contare” e “pesare” i cristiani e il loro contributo all’edificazione di una casa comune.
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