La preghiera è di Dio e non di Cesare

Bronzo, 1929
ARTURO MARTINI, Le stelle
La Repubblica, 9 gennaio 2009
di ENZO BIANCHI
Caratterizzare come religioso uno scontro sociale o etnico significa accrescere le potenzialità distruttive del conflitto e innescare una deriva di cui finiscono vittime


La Repubblica, 9 gennaio 2009

Vedere le piazze antistanti antiche cattedrali gremite di musulmani in preghiera dovrebbe suggerire alcune riflessioni più articolate di un semplice stupore, di una polemica di bassa lega, di una veloce nota di costume. Innanzitutto per il luogo fortemente simbolico: da secoli in Italia la piazza su cui si affaccia la chiesa principale di una città riveste un carattere emblematico: affermazione forte della presenza del cristianesimo al cuore dell’abitato urbano e, nel contempo, faccia a faccia esplicito tra religione e società. L’agorà, il luogo del dibattito civico, del convergere di interessi e attività sociali profane fronteggia il sito per eccellenza della presenza del religioso nella vita quotidiana: cattedrale e palazzo di città, l’una sovente di fronte all’altro, sono lì a ricordare la mai risolta dialettica tra Dio e Cesare, tra città di Dio e città degli uomini.

Ma nei giorni scorsi piazze abituate ad accogliere manifestazioni e cortei, oltre che il quotidiano andirivieni dei centri storici, si sono riempite di oranti, rendendo manifesto un intreccio di preghiera e protesta. Ora, è innegabile che in uno stato democratico e in una società civile lo spazio pubblico debba essere e restare disponibile per la manifestazione pacifica del dissenso, per la protesta o la pressione, anche dura ma sempre nei limiti della legge, di componenti dell’opinione pubblica o di organizzazioni politiche o sindacali. Tuttavia l’immettere nell’esercizio di questo diritto alla libertà di espressione, anche collettiva, una così esplicita connotazione religiosa mi pare metta a rischio sia la natura laica delle contese socio-politiche sia l’essenza stessa della preghiera. E questo, indipendentemente dalla religione confessata di quanti trasformano una manifestazione di protesta in momento di preghiera collettiva. Non dovremmo dimenticare, infatti, l’antichissima e mai sopita tentazione di arruolare nelle proprie schiere la divinità, di identificare i propri nemici con quelli di Dio, di far splendere gagliardetti e insegne militari in mezzo a paramenti sacri, di benedire armi da guerra e strumenti di morte: caratterizzare come religioso uno scontro sociale o etnico significa accrescere le potenzialità distruttive del conflitto e innescare una deriva di cui finiscono vittime la convivenza civile e il confronto democratico in uno stato laico.

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