Quando un forestiero bussa alla porta
di ENZO BIANCHI
Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione”. Di questo rispetto la coscienza ci chiede conto qui e ora
La Repubblica, 12 luglio 2009
“Ero straniero e mi avete ospitato”, oppure no? È questo l’interrogativo che non cessa di risuonare da quando l’evangelista Matteo l’ha posto in bocca a Gesù nella sua descrizione del giudizio finale, descrizione che non mira tanto a raccontare quanto accadrà alla fine dei tempi, ma piuttosto a plasmare l’atteggiamento quotidiano dei discepoli e a fornire loro un criterio di giudizio sul proprio e l’altrui comportamento. Del resto, fin dall’Antico Testamento, la categoria dello straniero era quella che meglio raffigurava le diverse sfaccettature del bisognoso: lontano dalla propria casa, lingua e cultura, privo dei diritti legati all’appartenenza a un popolo, sovente lo straniero finiva per cadere ben presto nelle altre situazioni di emarginazione e sofferenza: malato, carcerato, affamato e assetato..., condizioni non a caso citate anch’esse da Gesù nel suo racconto sul giudizio. Nella tradizione veterotestamentaria l’attenzione, la cura e il rispetto per lo straniero si fondavano su una memoria esistenziale prima ancora che storica: l’invito “amate il forestiero perché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto” (Deuteronomio 10,19) risuona pressante e attuale anche per generazioni ormai da tempo saldamente insediate nella terra promessa. A questa consapevolezza si aggiunge nei vangeli l’inattesa identificazione di Gesù con il bisognoso, lo straniero che attende accoglienza e che sovente incontra rifiuto: ciò che si fa o non si fa al “più piccolo”, al più indifeso è dono elargito o negato a Gesù, come se egli fosse presente e recettivo ogni giorno al nostro agire.
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