Comunione, quando l'amore diventa comunità
di ENZO BIANCHI
Il cristiano è colui che si adopera per eliminare la situazione di bisogno che fa soffrire il suo fratello: questo avvenne nelle diverse forme di condivisione praticate dalle comunità primitive
Ci sono brani del Nuovo Testamento che nel corso della bimillenaria storia della chiesa hanno conosciuto stagioni di grande eloquenza, alternate a periodi di oblio durante i quali venivano confinati nell’utopia. È il caso dei cosiddetti “sommari” degli Atti degli apostoli in cui Luca descrive in modo efficace e sintetico la vita della prima comunità di Gerusalemme, facendone una vera e propria norma capace di ispirare l’agire delle comunità cristiane di ogni tempo e latitudine.
“I credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune … erano un cuore solo e un’anima sola … Nessuno diceva suo quello che gli apparteneva, ma tra loro tutto era comune … nessuno tra loro era bisognoso” (cf. At 2,42-45; 4,32-35): sono affermazioni di forte impatto che, fino alla pax costantiniana, hanno conosciuto un’interpretazione mirante a rinvenirvi la forma primitivae ecclesiae, dunque un autentico modello per il rinnovamento della comunione intraecclesiale. Cessate le persecuzioni, questi stessi testi hanno conosciuto grande fortuna presso i padri monastici, Pacomio e Basilio su tutti, che vi hanno trovato una fonte d’ispirazione decisiva per la vita delle loro comunità. In seguito, sono stati oggetto delle più svariate letture etico-sociali, che vi hanno ravvisato l’ideale cristiano della condivisione dei beni, le esigenze della giustizia sociale, e molto altro ancora, così come hanno conosciuto, per contro, congiure di silenzio e sono stati disattesi nel vissuto quotidiano della chiesa.
Pubblicato su: Avvenire