Il cuore dell'uomo ferma la barbarie

olio su masonite, 1949
WILLIAM CONGDON, The black city
La Stampa, 5 settembre 2010
di ENZO BIANCHI
Cosa è venuto meno, nei singoli e nella collettività, perché alcuni atteggiamenti di cui un tempo ci si vergognava vengano oggi non solo assunti come possibili, ma addirittura additati come esemplari?


La Stampa, 5 settembre 2010

Un’interessante discussione sui barbari ha avuto luogo tra Alessandro Baricco ed Eugenio Scalfari sulle colonne di Repubblica nei giorni scorsi, quasi in concomitanza con gli interrogativi e le polemiche suscitate dalla politica francese di espulsione dei rom e con l’imbarazzante visita di un capo di stato nordafricano a Roma. L’intersecarsi di questi elementi – un’arguta riflessione che potrebbe restare sul piano della dialettica intellettuale, una drastica misura di polizia che accredita l’equazione immigrati-delinquenti e una preoccupante abdicazione della difesa dei diritti umani di fronte agli interessi economici – mi suggerisce di tornare ad alcune considerazioni che da tempo cerco di approfondire sulla pericolosa china del ritorno alla barbarie che la nostra società ha imboccato da tempo. Sì, la barbarie devasta già il presente.

L’identificazione che Baricco suggerisce dei barbari, presenti e futuri, con quanti cercano il senso in superficie anziché in profondità, e non più con coloro che parlano una lingua incomprensibile, è indubbiamente una trovata stimolante, che tra l’altro conferisce un’accezione positiva – o almeno neutra – al termine barbaro, ma non mi pare regga a un esame più approfondito. E questo non solo per i rilievi mossi da Scalfari, che mette in luce come anche questo muoversi leggeri sulla superficie delle cose sia reso possibile dalla conoscenza di quanto si trova in profondità.  Ritengo infatti che la barbarie – e quando si usa questo sostantivo anziché l’aggettivo “barbaro” l’accezione torna univocamente negativa – non nasca e non emerga dalla sua superficialità, bensì proprio dal lasciar venire in superficie istinti profondi che abitano il cuore umano. Del resto, chi abbia una minima conoscenza dal lavoro dei contadini sa bene che quanto cresce sulla superficie, così come i frutti che si possono raccogliere sono imprescindibilmente legati con quanto avviene in profondità, con il nutrimento che le radici traggono dal terreno e con il paziente lavoro compiuto sul terreno stesso.

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