Da precario dico amen e attendo che Dio risponda

bronzo, cm 57x23x27, 1935
ARTURO MARTINI, Ulisse
Avvenire, 19 settembre 2010
di ENZO BIANCHI
Il dubbio fa parte del credere, quindi la precarietà, l’incertezza fa parte della fede: ogni giorno la fede si rinnova vincendo il dubbio, accettando di non sapere, decidendo di acconsentire liberamente

Avvenire, 19 settembre 2010

Una stessa etimologia accomuna diverse parole: prex , preghiera; precari , pregare; precarius, precario... mettendo in evidenza proprio la «precarietà», la possibilità di ottenere o di non ottenere quanto si chiede attraverso la preghiera, ma anche la condizione «precaria» in cui si trova colui che prega. Sì, la preghiera è fondamentalmente un’azione «precaria», suscettibile di efficacia oppure no, che può essere esaudita o inevasa. Per questo chi prega inizia a farlo ponendosi, consapevolmente o meno, una domanda: «E se Dio non risponde?». Ma questa natura della preghiera è propria anche dello stesso atto del credere: la fede è un dono che porta in sé la precarietà. «E se Dio non esistesse?» non può fare a meno di chiedersi il credente. Una domanda lacerante che non può essere evasa alla leggera, anche perché la fede non sta nello spazio del sapere, ma in quello della convinzione. La fede non è un possesso definitivo, non è una certezza acquisita una volta per tutte: essa partecipa dell’insicurezza che caratterizza la libertà della persona e per questo nel cuore di ogni credente c’è una certa simultaneità di fede e di incredulità, come ci testimonia anche il Vangelo di Marco a proposito del padre del bambino epilettico che si rivolge a Gesù in questi termini: «Credo, aiutami nella mia incredulità!» (Mc 9,24). Il dubbio fa parte del credere, quindi la precarietà, l’incertezza fa parte della fede: ogni giorno la fede si rinnova vincendo il dubbio, accettando di non sapere, decidendo di acconsentire liberamente a una promessa, vivendo come pellegrini mai residenti, sentendosi non soli ma insieme ad altri, come in una carovana.

Se la fede è un dono di Dio che deve essere accolto dall’uomo, proprio perché è l’essere umano a credere, allora è anche un atto umano, un atto della libertà della persona che risponde al Dio che parla: «Non è Dio, ma l’uomo che crede», ha affermato giustamente Karl Barth. Così la fede è una scelta della persona che coinvolge tutto il suo essere, manifestandosi come un atto umanissimo e vitale, teso alla vita; è entrare in una relazione, in un rapporto vivo con un altro. Fede è dire: «Amen, è così; io aderisco, faccio fiducia, mi fido di qualcuno». Quando parliamo di fede, non dobbiamo pensare immediatamente al credere in alcune verità, in determinati dogmi (è quella che i teologi definiscono fides quae ); dobbiamo invece pensare la fede come quell’atto, di cui ci testimoniano le sante Scritture, che consiste nel mettere il piede sul sicuro (cfr. Sal 20,8-9; 125,1; Is 7,9), nell’affidarsi come un bambino attaccato con una fascia al seno di sua madre (cfr. Is 66,12-13), sicuro in braccio a lei (cfr. Sal 131,2). La fede ritrova allora la sua dimensione di necessità umana. Potremmo dire che non ci può essere autentica vita umana, umanizzazione, senza fede.

  • 1
  • 2

Pubblicato su: Avvenire