Il deserto e il giardino. Le due solitudini dell'uomo

Bronzo, 1949
ALBERTO GIACOMETTI, A man crossing the area
Avvenire, 29 luglio 2012
di ENZO BIANCHI
Essere soli, saper stare soli è una conquista che esige fatica, esercizio, audacia. Senza la solitudine e senza il silenzio

Avvenire, 29 luglio 2012

 Solitudine: una parola che abitualmente suona come negativa, che fa paura, perché rimanda all’immagine di una landa desolata, a una situazione chiusa, di isolamento, addirittura di reclusione in prigione. Quando si afferma che qualcuno è solo, lo si dice con un sentimento di pena, di compassione. Gabriel Marcel è arrivato a confessare: «Non c’è che una sofferenza: l’essere solo», ben sapendo che molti uomini e molte donne sono condannati a subire questa situazione. E Victor Hugo ha scritto lapidariamente: «L’inferno è tutto in questa parola: solitudine». Più che di solitudine, dovremmo però parlare di solitudini, al plurale, perché tante sono le forme in cui la solitudine può apparire, e di fatto appare, nelle nostre vite.

Innanzitutto c’è una solitudine da leggere come una sorta di destino, cioè quella solitudine in cui si precipita a un certo punto della vita, quando la morte ci strappa chi ci permetteva di non essere soli. Questa è, per esempio, la solitudine dell’orfano che, perdendo la madre o il padre, non ha più accanto a sé quella presenza che era la carne, la vita da cui era venuto, non ha più quel riferimento al 'tu' che l’aveva accompagnato nella sua venuta al mondo. Un tempo la solitudine dell’orfano era un tema della letteratura, soprattutto quella per i ragazzi, un tema attestato in modo quasi ossessivo; oggi invece è rimosso, come se non si registrasse più la morte di qualche genitore, che determina per il figlio, bambino o adolescente, una situazione di triste solitudine. Solitudine legata a una perdita è anche quella di chi è privato del suo amante/amato, Eugenio Montale scriveva alla morte della moglie: «Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino». Sì, in questa solitudine-destino si può solo gemere, piangere, fare lamento: il pianto è l’unica cosa necessaria e sembra anche l’unica medicina possibile.

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