La speranza che viene dal Sinodo

È indubbio che oggi in Africa, in Medioriente, in Asia e ora anche nei paesi dell’occidente a causa dell’immigrazione, l’islam con le sue diverse componenti costituisce una presenza che interroga: i padri sinodali provenienti dalle chiese più direttamente implicate in questa non facile convivenza, hanno cercato di far conoscere con molto rispetto i loro problemi, le difficoltà che la dimensione missionaria incontra a causa della mancanza di libertà religiosa, il rischio che i cristiani – pur abitando da secoli, prima che l’islam apparisse, le terre ora a maggioranza musulmana – siano percepiti come “occidente”, quasi degli intrusi nel loro stesso paese, e siano spinti a emigrare. Proprio per questo ho trovato straordinario poter ascoltare le voci di questi vescovi, tutte testimoni di un impegno nel dialogo, prive di accenti aggressivi o toni da crociata. La chiesa è veramente mutata in questi ultimi cinquant’anni: non più ostilità verso gli “infedeli”, ma dialogo, comune responsabilità per il bene della società, ricerca di pace tra le religioni, libertà di coscienza, affermazione della necessaria “ragione umana” in ogni dottrina religiosa...    

La chiesa non vuole promuovere un proselitismo che imponga il vangelo o seduca gli uomini, ma vuole che la buona notizia possa essere ascoltata da tutti, perché ogni essere umano ne ha il diritto. Per questo si impegna a evangelizzare innanzitutto se stessa e quindi a offrire una vita che abbia senso, un messaggio che affermi che l’amore vissuto può vincere la morte. Ma la chiesa nella sua opera evangelizzatrice è consapevole che il mondo non è un deserto, un vuoto senza bene e senza valori, bensì un mondo in attesa di risposte adeguate, un mondo ogni giorno abitato e plasmato dall’uomo che è sempre un figlio di Dio, una creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio, dunque capace del bene, anche se a volte il male la ferisce e la rende disumana. Per annunciare il vangelo, i cristiani devono allora ascoltare il mondo, conoscerlo, leggerne le gioie e le sofferenze e, soprattutto, discernere in esso i “poveri”, gli ultimi, le vittime del potere e di quanti dispongono della ricchezza e non si curano degli altri. Se Gesù ha dichiarato di essere venuto a portare la buona notizia del vangelo ai poveri, la chiesa non può fare altrimenti perché, al seguito del suo Signore, è chiamata a essere innanzitutto chiesa povera e di poveri.

 

Pubblicato su: La Stampa