Caro Diogneto - 7
di ENZO BIANCHI
Il cristiano sa di passare attraverso dubbi e a volte anche oscurità ma, se la sua conoscenza di Dio passa attraverso la conoscenza di Gesù Cristo, allora in nome di questo amore per lui anche il non sapere conferma e rafforza la sua convinzione
JESUS, luglio 2009
Al tempo in cui è stata scritta la A Diogneto i cristiani venivano sovente definiti “atei”. Così attesta il filosofo cristiano Giustino: “Veniamo detti atei: sì, noi lo confessiamo, siamo atei, senza questi pretesi dèi; ma noi crediamo nel Dio vero, Padre della giustizia, della sapienza...” (I Apologia, 6). In quell’epoca la differenza cristiana – cioè lo specifico del cristiano rispetto agli altri uomini – era evidente, ma essa non alimentava nei cristiani alcuna arroganza, alcun orgoglio nei confronti della società in cui vivevano: la differenza cristiana nutriva solo la fierezza della fede e l’umiltà della loro testimonianza.
Quei cristiani, nostri padri nella fede, non cercavano di mettersi in concorrenza religiosa con i pagani, come testimonia ancora Giustino: “La parola ‘Dio’ per noi non è un nome, ma una approssimazione naturale all’uomo per designare l’inspiegabile”. I cristiani erano soprattutto convinti che Gesù di Nazaret, con la sua vita e le sue parole, aveva “raccontato” (exeghesato, cf. Gv 1,18) il Dio vero e vivente. Questo impediva loro, come invece avverrà più tardi, di “divinizzare” Gesù a partire dall’idea che l’uomo si fa di Dio. In verità, Gesù aveva contestato ogni modo umano di concepire Dio, aveva disfatto molte immagini perverse di Dio: in un certo senso potremmo dire che Gesù aveva “evangelizzato” Dio, aveva cioè reso Dio un evangelo, una buona notizia.