Caro Diogneto - 22
di ENZO BIANCHI
Solo se si guarda in faccia la solitudine e la si legge nei volti che assume, si può reagire, assumerla e forse anche redimerla. Solo se si intraprende il cammino dell’habitare secum si può forse viverla da uomini
La solitudine
Jesus, ottobre 2010
di ENZO BIANCHI
All’inizio del libro della Genesi, al momento della creazione risuonano le prime parole di Dio dette all’uomo e davanti all’uomo. Innanzitutto Dio ammonisce l’uomo a non varcare il limite della sua condizione di creatura e, subito dopo, osserva: “Non è bene che l’uomo sia solo!” (cf. Gen 2,16-18). E così ecco l’uomo, il terrestre: una creatura limitata, fragile; una creatura che può avere una condizione “non buona”, negativa: la solitudine. Il bene per l’essere umano è la comunicazione, la relazione, la comunione, dunque la comunità, il luogo in cui vivere e sperimentare l’appartenenza reciproca e la bontà-bellezza del vivere insieme cantata dal salmo: “Com’è bello, com’è buono, vivere insieme da fratelli” (Salmo 133).
Dobbiamo confessare che quando pronunciamo o sentiamo la parola “solitudine”, questa ci ferisce, desta una certa paura e a volte richiama l’oscurità, il deserto, l’isolamento, addirittura la prigione. Il libro della Genesi ci dice che Dio ha voluto creare la donna e darla come compagna all’uomo perché la solitudine di questi cessasse, ma in verità la solitudine continua a minacciare sia l’uomo che la donna: la solitudine appare come un’esperienza connaturale all’esistenza umana fino alla morte, momento epifanico della solitudine perché si muore sempre soli, anche quando si ha il dono di essere attorniati da altri.