Caro Diogneto - 42

ARTURO MARTINI, Il perdono, la carità
ARTURO MARTINI, Il perdono, la carità
Jesus, giugno 2012
di ENZO BIANCHI
Per la sequela del Signore occorre dunque ricevere la fede conformemente al vangelo e non nutrire una fede in Cristo a nostra misura

Jesus, giugno 2012
di ENZO BIANCHI

Fin dalla mia giovinezza ho letto e meditato con assiduità Ignazio di Antiochia, il grande padre della chiesa: dopo le sante Scritture, le sue lettere sono state il messaggio che ha maggiormente ispirato la mia vita di cristiano e di membro tra le membra della chiesa. Il vescovo e martire  insiste nell’affermare che nella vita cristiana principio è la fede, fine o scopo è l’amore. Per questo chi professa di appartenere a Cristo sarà riconosciuto per quello che opera: quindi, scrive Ignazio, “è meglio tacere di essere cristiano ed esserlo che professarsi cristiano e non esserlo” (cf. Lettera agli Efesini XIV,1 – XV, 1). Questa esigenza che Ignazio ribadiva all’inizio del II secolo vale tuttora, anche se ultimamente noi l’abbiamo sottovalutata o dimenticata e qualcuno l’ha perfino contestata.

Essere cristiani, certo, è possedere la fede, ma in alcuni casi questa fede – che viene detta certezza e magari si esprime in una militanza eloquente e aggressiva – solleva dubbi più che attirare gli uomini e richiamarli alla conversione. Ora, solo persone che sanno mostrare una conversione avvenuta per loro stessi, che sanno testimoniare la “differenza cristiana” possono narrare con la vita ciò che predicano. Resta vero che l’uomo divenuto cristiano rimane peccatore – “il giusto pecca sette volte al giorno”, dice la Scrittura – e che la conversione, il ritorno a Dio va rinnovato ogni giorno, ma l’orientamento del vivere va mostrato. Il peccato del cristiano può essere una caduta, ma non un costume, un’abitudine, un modo di vita addirittura ostentato. Il Signore Gesù è andato verso i peccatori, si è seduto alla loro tavola, ha mangiato e bevuto con quanti pubblicamente avevano una vita peccaminosa – pubblicani, prostitute... – ma li ha richiamati a una vita diversa e costoro alla sua sequela non hanno continuato a vivere come prima.

La fede poi si esprime nel quotidiano attraverso l’amore che è il fine della vita cristiana: il cristianesimo non è gnosi, conoscenza e affermazione della divinità di Cristo o della sua resurrezione, ma deve essere – pur nelle contraddizioni dovute alla debolezza umana – una relazione con Gesù, il Signore che cambia la vita e ispira un’etica. No, non basta credere alla resurrezione e avere la gioia negli occhi, non basta professare che si è fatto l’incontro con Gesù: lo stile con cui il cristiano vive è determinante quanto la proclamazione di fede. E il messaggio del vangelo non può essere affermato se non si tenta di viverlo ogni giorno con fatica e perseveranza.

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