Insieme - 8

Rocca, settembre 2012
di ENZO BIANCHI
La stabilità del luogo, infatti, è a servizio della stabilità del cuore e dei fratelli, cioè dell’unificazione della propria esistenza e dell’edificazione di una comunione di vita e di intenti

Rocca, settembre 2012

Stabilità e mobilità

La mobilità sembra diventata la cifra della nostra società. Dalla seconda metà dell’ottocento fino agli anni settanta-ottanta del secolo scorso per gli italiani significava innanzitutto emigrazione: oltreoceano, in Europa, interna al paese stesso. Ma era una mobilità ancora relativa: ci si sradicava sì con fatica, sacrifici e sofferenza dalla propria terra ma la prospettiva era quella di fissarsi in un altro paese, coltivando sempre il sogno di poter un giorno tornare “a casa”, dove per lungo tempo restavano comunque gli affetti. Oppure, soprattutto per alcune professioni, c’era la mobilità legata a un determinato lavoro che rimaneva lo stesso, ma veniva svolto con il passare degli anni in luoghi diversi: il “posto fisso” poteva richiedere traslochi da una città all’altra, anche all’estero. Oggi mobilità si declina con precarietà sia del lavoro che del luogo di residenza e, come se non bastasse, la frequenza e la rapidità degli spostamenti è cresciuta a dismisura. Non solo, anche chi svolge la propria attività sempre nello stesso posto lo fa di corsa, attento ai cambiamenti repentini delle situazioni, abituandosi a non vedere a lungo le stesse persone accanto a sé. Così, quasi naturalmente, diventano mobili e precari anche i rapporti e i legami affettivi, così le storie si riducono ad avventure, magari affascinanti, ma povere di memoria e di prospettive, così la pazienza, la durata, il saper aspettare diventano retaggio obsoleto di un passato ormai superato.

Di fronte a un mutamento culturale di questa portata, viene da pensare all’intuizione spirituale e culturale di san Benedetto nel VI secolo: raccogliere in una comunità persone diverse legandole con l’impegno della stabilità, del permanere tutta la vita in un determinato luogo. Non si pensi che sia stata una scelta figlia del normale contesto agricolo in cui è nata: come sovente è avvenuto nella storia, il neonato monachesimo benedettino agì con elementi di controcultura, di reazione al modo consueto, normale, maggioritario di pensare e di agire. Ai tempi di Benedetto, infatti, le campagne – proprietà di nobili latifondisti e lavorate da schiavi o servi della gleba – venivano abbandonate a motivo delle incursioni barbariche che mutavano i padroni delle terre o depredavano il frutto di intere annate di lavoro.

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