Sant'Eusebio di Vercelli
Omelia di ENZO BIANCHI
Questa sera nella celebrazione vigiliare nella memoria di S. Eusebio, il vescovo monaco fondatore della nostra chiesa pedemontana, noi accogliamo nella nostra koinonía un nuovo fratello
di Fr. EMANUELE BORSOTTI
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di ENZO BIANCHI, Priore di Bose
Bose, 1° agosto 2011
Questa sera nella celebrazione vigiliare nella memoria di S. Eusebio, il vescovo monaco fondatore della nostra chiesa pedemontana, noi accogliamo nella nostra koinonía un nuovo fratello, Emanuele. L’accoglienza di un nuovo monaco è sempre un’azione che ci rallegra, perché nuova vita entra nella nostra vita, ma soprattutto perché ancora una volta si compie quell’offerta al Signore che è il vero culto cristiano, il culto seconda la Parola e lo Spirito (cf. Rm 12,1; Gv 4,23-24). Ma l’accoglienza di un fratello è anche sempre un atto che ci deve interrogare sulla nostra vita monastica, sulla risposta nostra, di ciascuno di noi e di tutta la comunità insieme, perché anche la comunità nel suo insieme è un soggetto, un soggetto corporativo: ognuno di noi e l’intera comunità intera deve interrogarsi sulla vocazione ricevuta dal Signore.
A volte io mi chiedo, e non sembri un linguaggio semplicemente paradossale: «Abbiamo noi iniziato a vivere la nostra vocazione? Abbiamo iniziato a vivere la vita monastica? La vita comune, sì, non foss’altro che la vita comune, abbiamo iniziato a viverla veramente?». Possono sembrare domande che echeggiano alcuni detti dei padri del deserto, ma in realtà sono le domande necessarie per la vera dinamica della vita cristiana, che non solo non sembra mai giungere al télos, al fine, a una certa pienezza. A volte proprio questa dinamica della vita cristiana sembra talmente contraddittoria, faticosa, da dover essere letta come un continuo cadere, come un alternarsi di fallimenti e di brevi momenti in cui sembra che sia riuscita qualcuna delle proposizioni che la vita monastica aveva osato fare.
C’è soprattutto un punto su cui noi dovremmo interrogarci nel nostro cammino monastico, un punto che di fatto riassume tutta la nostra vita, che dice l’essenziale della nostra vita di sequela dietro a Gesù. Non è solo qualcosa che possiamo desumere dalla tradizione monastica, ma è un punto annunciato chiaramente da Gesù; e poi i Padri, soprattutto il nostro amatissimo Basilio, hanno capito che questa è la domanda centrale che il monaco deve fare sulla sua sequela. Il punto centrale è la rinuncia, apotaghé. Gesù ha detto: «Chi non rinuncia a tutti i suoi beni, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33). Dove «tutti i propri beni» non sono i beni generali, ma sono quei beni che soltanto chi si mette alla sequela di Gesù può discernere come beni ai quali deve rinunciare per essere semplicemente uno che segue Gesù. Nell’ottava delle sue Regole diffuse Basilio, commentando queste parole di Gesù, scrive: «La rinuncia perfetta consiste nel giungere al distacco dalla propria stessa vita e nel ricevere sentenza di morte, così da non riporre più fiducia in se stessi». Parole che io completerei, o meglio espliciterei, perché Basilio echeggia Paolo: «… così da non riporre più fiducia in se stessi, ma in Dio che risuscita dai morti» (cf. 2Cor 1,9). Rinunciare è una parola che oggi detestiamo, è una parola che abbiamo espulso dal vocabolario della spiritualità cristiana, eppure ciò che essa designa è l’atto reale, elementare, ma essenziale e decisivo nel cammino della sequela: rinunciare a molte cose che riteniamo beni, fino addirittura a rinunciare alla vita, fino ad accettare di ricevere su di noi sentenza di morte; rinunciare a ciò che abbiamo, per giungere a rinunciare addirittura a ciò che siamo. In ogni caso si tratta – lo dico con le parole di Gesù – di rinunciare a se stessi, rinnegando se stessi (cf. Mc 8,34 e par.).