Gesù Cristo nella Lettera ai Filippesi

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Cattedrale di Lione, 14 marzo 2009
Ritiro Diocesano
con il
cardinale PHILIPPE BARBARIN
Questo amore gratuito di Dio narrato da Cristo ci stupisce
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Ritiro Diocesano con il cardinale PHILIPPE BARBARIN
Cattedrale di Lione, 14 marzo 2009
ENZO BIANCHI
Priore di Bose

Introduzione

All’interno dell’epistolario paolino la Lettera ai Filippesi è quella in cui Paolo apre maggiormente il proprio cuore ai destinatari: egli rivela ai cristiani di questa comunità l’essenziale del suo rapporto con Gesù, il Signore, e nello stesso tempo delinea per loro i tratti fondamentali della vita in Cristo, della vita cristiana. L’Apostolo scrive questa lettera in una data collocabile tra il 53 e il 56 d.C.: a nemmeno trent’anni dalla morte e resurrezione di Gesù la fede in lui è già giunta in Europa, e quella di Filippi è stata la prima comunità cristiana fondata in territorio europeo dallo stesso Paolo, insieme a Sila e Timoteo, nel 49/50 d.C. (cf. At 16,11-40).

Paolo è stato un ebreo persecutore dei cristiani, capace di nutrire un fiero odio verso Gesù e i suoi seguaci in nome della propria fede appassionata nel Dio di Israele (cf. At 22,3), l’unico e vero Dio; egli sentiva questa nuova «via» (cf. At 9,2) come portatrice di una bestemmia, e quando l’odio è vissuto in nome di Dio è ancora più devastante dell’odio meramente umano… Ed ecco che intorno al 35 d.C., in questa situazione di avversione radicale da parte di Paolo, in questa sua incolmabile distanza dal Signore Gesù, è il Signore stesso a venirgli incontro sulla strada di Damasco, gettandolo a terra e accecandolo con una luce sfolgorante:

«Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?».
Risposi: «Chi sei, o Signore?».
Mi disse: «Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti»
(At 22,7-8; cf. At 9,3-5; 26,13-15).

Paolo sperimenta di essere amato e chiamato da Dio, attraverso Gesù, proprio mentre egli odia quest’ultimo nei suoi discepoli, mentre gli è nemico (cf. Rm 5,6-11), e questa inaudita simultaneità infrange tutti i suoi meccanismi di difesa, fino a renderlo un’altra persona: l’accecamento di Paolo ha fine, egli si converte, apre gli occhi su Dio e conosce Gesù Cristo in modo da risultarne «afferrato» (Fil 3,12). Di più, egli diventa missionario, apostolo in tutto il bacino del Mediterraneo, fino a essere l’Apostolo per eccellenza: da allora e per tutta la sua vita Paolo annuncia Gesù Cristo sentendosi in un rapporto di schiavitù nei suoi confronti. Per questo egli ama definirsi «servo di Cristo Gesù» (Rm 1,1; cf. Fil 1,1): la condizione che per la mentalità del tempo era sinonimo di ignominia, ma che già per Israele indicava il legame più stretto e profondo tra Dio e il credente e dunque il culto reso a Dio (avodah), Paolo la sente come possibilità eminente di comunione con Gesù Cristo, il «suo» Signore (cf. Fil 3,8).