Respirare lo Spirito santo
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15 maggio 2016
di ENZO BIANCHI
Pentecoste
Gv 20,19-23
19La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». 20Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 21Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». 22Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Nella liturgia odierna, solennità della Pentecoste, dopo aver letto il racconto della discesa dello Spirito santo sugli apostoli e su Maria, la madre di Gesù, il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua (cf. At 2,1-11), si proclama il brano del vangelo secondo Giovanni nel quale viene narrato il dono dello Spirito ai discepoli la sera dello stesso giorno della resurrezione, il primo giorno della settimana ebraica (cf. Gv 20,1). Questa differenza è in realtà una sinfonia con la quale la chiesa testimonia lo stesso evento letto in modi diversi ma non discordanti.
Negli Atti Luca ricorda che Gesù, salito al cielo, ha adempiuto la promessa fatta, mandando sulla comunità dei discepoli il vento infuocato dello Spirito santo quando gli ebrei festeggiavano a Pentecoste il dono della Torà fatto da Dio a Mosè. Per Luca è il compimento dei compimenti, la stipulazione piena della nuova alleanza, alleanza non più fondata sulla Legge ma sullo Spirito santo, scritta non su tavole di pietra ma nel cuore dei credenti (cf. Ger 31,31-33). È la nascita della chiesa, della comunità del Signore immersa, battezzata nello Spirito santo, abilitata dallo stesso Spirito a proclamare la buona notizia del vangelo a tutte le genti, da Gerusalemme a Roma.
Giovanni invece, che conclude il suo vangelo con quel giorno della resurrezione, intende attestare la pienezza della salvezza manifestatasi nella vittoria di Gesù sulla morte, nel dono del santo Soffio che dà inizio a una nuova creazione in cui la misericordia di Dio ha il primato, regna, e per questo c’è la remissione dei peccati del mondo. È questa remissione, questo perdono gratuito e definitivo donato da Dio di cui i discepoli devono essere ministri in mezzo all’umanità. Nonostante abbiamo già letto, ascoltato e commentato questo testo la seconda domenica di Pasqua, torniamo fedelmente e puntualmente all’ascolto e alla meditazione su di esso, chiedendo al Signore di rinnovare la nostra mente in modo che, leggendo parole antiche, ascoltiamo parole nuove per il nostro “oggi”.
Siamo dunque nel primo giorno della settimana, il primo dopo il sabato che era Pasqua in quell’anno, il 7 aprile dell’anno 30: è il giorno della scoperta della tomba vuota, perché Gesù è risorto da morte. I discepoli di Gesù, che erano fuggiti al momento dell’arresto, sono chiusi nella loro casa a Gerusalemme, oppressi dalla paura di essere anche loro accusati, ricercati e imprigionati come il loro rabbi e profeta Gesù. Sì, la comunità di Gesù è questa: uomini e donne fuggiti per paura, paralizzati dalla paura, senza il coraggio che viene dalla convinzione e dalla fiducia, dalla fede in colui che avevano seguito senza capirlo in profondità. Tuttavia in quell’aporia c’è un lavoro che si compie nel cuore dei discepoli e nella vita della comunità: le parole di Gesù, ascoltate tante volte, seppur come addormentate sono nel loro cuore; la lettura delle Sante scritture, della Torà, dei Profeti e dei Salmi (cf. Lc 24,44), fatta insieme a Gesù, continua a generare pensieri e acquisizioni di conoscenza del mistero di Dio e dell’identità dello stesso Gesù; la forza della fede del discepolo amato che “vide e credette” (Gv 20,8) e di Maria di Magdala che dice: “Ho visto il Signore” (Gv 20,18) li contagia e li smuove.
Paura e fede combattono il loro duello nel cuore dei credenti, quando Gesù in realtà è in mezzo a loro, finché possono dire: “Venne e stette in mezzo”. Il Signore è presente con la sua presenza di risorto vivente e glorioso là dove sono i suoi, ma i nostri occhi sono impossibilitati a vederlo, il nostro cuore non ha il coraggio di vedere ciò che desidera e sa essere possibile. Non sapendo dire altro, noi affermiamo: “Venne e stette in mezzo”, ma il Risorto è sempre presente e appare come Veniente quando noi ce ne accorgiamo. Questa è la realtà che viviamo ogni primo giorno della settimana, ogni domenica, e quei discepoli non erano più privilegiati di noi. Gesù è in mezzo a noi, nella posizione centrale: se non lo è, significa o che non lo vediamo per mancanza di fede, oppure che prendiamo volentieri il suo posto al centro, attentando alla sua signoria unica di risorto e vivente. Solo chi sa dire: “È il Signore!” (Gv 21,7), sa vederlo e riconoscerlo.
Il Signore è in mezzo a noi! Non si dimentichi che la più grande tentazione vissuta da Israele nel deserto fu proprio quella di chiedersi: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7). Ecco la poca fede o la non fede di cui siamo preda noi che ci diciamo credenti… In verità Gesù è in mezzo a noi sempre, è l’‘Immanuel, il Dio-con-noi (cf. Mt 1,23; 28,20), non ci lascia, non ci abbandona. Se mai, siamo noi che lo abbandoniamo e fuggiamo da lui come i discepoli nel Getsemani (cf. Mc 14,50; Mt 26,56); siamo noi che di fronte al mondo finiamo per dire: “Non lo conosciamo”, come Pietro nel rinnegamento (cf. Mc 14,71 e par.); siamo noi che, quando dobbiamo constatare la sua presenza perché gli altri ce la testimoniano, continuiamo a diffidare e a nutrire dubbi, come Tommaso (cf. Gv 20,24-25).
Ed ecco, nel racconto giovanneo, che appena Gesù “è visto”, dona la pace, lo shalom, la vita piena, e accompagna questa parola con dei gesti. Innanzitutto si fa riconoscere, perché non ha più la forma umana di Gesù di Nazaret, quella che i discepoli conoscevano e tante volte avevano contemplato. È altro perché il suo corpo cadaverico non è stato rianimato ma trasfigurato, trasformato da Dio in un corpo il cui respiro è lo Spirito santo, lo Spirito di Dio, quello che Gesù respirava nel seno del Padre da sempre, prima della sua incarnazione nel seno della vergine Maria, prima della sua venuta nel mondo. Ma in quel corpo di gloria restano le tracce del suo vissuto umano, della sua sofferenza-passione, dell’aver amato fino a dare la vita per gli altri (cf. Gv 15,13). Sono le piaghe, le stigmate, i segni della croce alla quale è stato appeso, e insieme a esse il segno dell’apertura del petto a causa del colpo di lancia, apertura che proclamava il suo amore, che come fiume uscito da lui voleva immergere l’umanità per perdonarla, purificarla e portarla alla comunione con il Padre (cf. Gv 7,37-39; 19,34).
E così i discepoli lo riconoscono e gioiscono al vedere il Signore. Finalmente la loro incredulità è vinta e la gioia della sua presenza, della sua vita in loro li invade. Allora Gesù soffia su di loro il suo respiro, che non è più alito di uomo ma Spirito santo. Nella creazione dell’uomo, nell’in-principio, Dio aveva soffiato in lui un alito di vita (cf. Gen 2,7); nell’ultima creazione soffierà un soffio, un vento di vita eterna (cf. Ez 37,9): nel frattempo, ora, ogni volta che è presente nella comunità dei cristiani e da essi invocato e riconosciuto, lo Spirito continua a spirare. Questo respiro del Risorto diventa il respiro del cristiano: noi respiriamo lo Spirito santo! Ognuno di noi respira questo Spirito, anche se non sempre lo riconosciamo, anche se spesso lo rattristiamo (cf. Ef 4,30) e lo strozziamo in gola, nelle nostre rivolte, nei nostri rifiuti dell’amore e della vita di Dio.
Questo Soffio che entra in noi e si unisce al nostro soffio ha come primo effetto la remissione dei peccati. Li perdona, li cancella, in modo che Dio non li ricorda più. Questo Soffio è come un abbraccio che ci mette “nel seno del Padre” (en tô kólpo toû Patrós: cf. Gv 1,18), ci stringe a Dio in modo che non siamo più orfani ma ci sentiamo amati senza misura di un amore che non abbiamo meritato né dobbiamo meritare ogni giorno. “Ricevete lo Spirito”, dice Gesù, cioè “accoglietelo come un dono”. Una sola cosa è chiesta: non rifiutare il dono, perché il Padre dà sempre lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono (cf. Lc 11,13). È il dono della vita piena; il dono dell’amore che noi non saremmo capaci di vivere; il dono della gioia che spegneremmo ogni giorno; il dono che ci permette di respirare in comunione con i fratelli e le sorelle, confessando con loro una sola fede e una sola speranza; il dono che ci fa parlare a nome di tutte le creature come voce che loda e confessa il Creatore e Signore.
Gesù, che prima di andarsene aveva detto: “Ricevete, mangiate; questo è il mio corpo” (Mt 26,27), ora dice: “Ricevete lo Spirito santo”, sempre lo stesso invito ad accogliere il dono.
Spetta a noi ricevere il corpo di Cristo per diventare corpo di Cristo,
spetta a noi ricevere lo Spirito santo per respirare lo Spirito.
E in questa nuova vita animata dal Soffio santo sempre e sempre avviene la remissione dei peccati: Dio li rimette a noi e noi li rimettiamo agli altri che hanno peccato contro di noi (cf. Mt 6,12; Lc 11,4). Non c’è liberazione se non dalla morte, dal male e dal peccato! La Pentecoste è la festa di questa liberazione che la Pasqua ci ha donato, liberazione che raggiunge le nostre vite quotidiane con le loro fatiche, le loro cadute, il male che le imprigiona. Possiamo davvero confessarlo: il cristiano è colui che respira lo Spirito di Cristo, lo Spirito santo di Dio, e grazie a questo Spirito è santificato, prega il suo Signore, ama il suo prossimo.
Gian Lorenzo Bernini e aiuti, La cattedra e la Gloria, bonzo in parte dorato, diaspro di Sicilia, marmi colorati, legno, vetro, stucco, 29,68 metri altezza massima, 1657-1666, abside di san Pietro, Vaticano.
La Cattedra di san Pietro è il punto di arrivo ottico di tutto il grande complesso architettonico e concettuale che è la basilica vaticana. Bernini iniziò a lavorarci su commissione di Alessandro VII Chigi. Il progetto fu elaborato tra il 1656 e il 1657 e richiese dieci anni di lavoro per realizzarlo.
Bernini concepisce l'abside della basilica come un grande allestimento effimero ovvero come una scenografia teatrale. All'epoca a Roma questi allestimenti di grandi dimensioni fatti per durare anche poche ore, il tempo di una festa tra nobili, erano alquanto solite. Resterà nella memoria della città la macchina effimera realizzata da Bernini nel 1661 a Trinità dei monti che rappresentava la nascita del delfino. Era una struttura realizzata in tre mesi finalizzata a ospitare uno spettacolo pirotecnico (la famosa scala di Trinità dei monti sarà realizzata solo tra il 1723 e il 1726 su progetto dell’architetto romano Francesco De Sanctis).
Questa grande macchina in Vaticano presenta due fuochi: lo Spirito santo nella parte alta e la cattedra di Pietro nella parte inferiore. Non a caso utilizzo la parola “fuochi” poiché la composizione è giocata sulle forme ellittiche (in rosso) e per disegnare un ellisse c'è bisogno di due centri.
Per sottolineare il genio di Bernini che riesce a far svolgere a questa struttura diverse funzioni c'è da aggiungere che la cattedra in metallo nella parte inferiore è in realtà un reliquiario. Al suo interno è custodita una cattedra lignea di epoca carolingia che la tradizione erroneamente attribuiva all'apostolo Pietro. Infatti la cattedra metallica si può (non molto agevolmente) aprire per estrarne quella in legno.Mi soffermerò a descrivere la parte alta della composizione, quella dedicata allo Spirito. Come si può vedere dalla composizione (linee gialle) la colomba occupa la posizione più enfatica della struttura. In un certo senso è il centro attorno al quale tutto il resto dell'opera è concepita.
Bernini fa irrompere lo Spirito nello spazio della basilica, dalla vetrata infatti partono una serie di raggi e di nubi che invadono lo spazio quasi fino al pavimento. Gli angeli attorno alla finestra rendono movimentata e concitata questa irruzione. Sembrano lentamente allontanarsi dalla finestra sospinti dal vento. Un elemento ottico che Bernini inerisce per sottolineare questo movimento è che le nuvole sono scolpite non in maniera concava, come ci spetteremmo, ma convessa. In questo modo essendo dorate convogliano all'interno la luce e lasciano delle zone d'ombra che danno l'impressione che la nube stia avanzando verso l'osservatore.
Un ultimo elemento ottico che presento (tra i tanti che Bernini utilizza in questo caso) è la scelta in inserire in primo piano le due colonne ai fianchi della cattedra circondate dalle nubi. Per dare l'impressione che questa irruzione dello Spirito avvenga in uno spazio tridimensionale, visto che in realtà è semplicemente una parete curva, le due colonne ci danno l'impressione di non essere ancora state coperte dalla nube, ma che tra qualche secondo questo avverrà.
Come osservatori siamo chiamati a farci travolgere dallo spirito che sta arrivando verso di noi pronti a respirarne il profumo.