La signoria nella Passione
7 aprile 2023
Passione del signore
Omelia di fr. Sabino Chialà, priore di Bose
(Is 52,13-53,12 - Gv 18,1-19,37– Eb 4,14-5,10)
Fratelli e sorelle,
il nostro cammino nel mistero della Pasqua del Signore giunge in quest’ora nona del venerdì al suo punto più oscuro, dove le tenebre si ammassano fitte e sembra che nulla più resti di quell’esistenza spesa per la vita di tutti. Gesù sembra sconfitto, annientato. Tutto sembra finito. Un bel sogno... infranto da un epilogo senza luce.
Il testo evangelico che abbiamo ascoltato ne è la narrazione: si susseguono tradimenti (Giuda), incomprensioni e rinnegamenti (Pietro), processi farsa (capi e Pilato), violenze frutto di leggerezza (folle) o espressione di sadismo (soldati). Nulla di eccezionale, in verità. Quello che Gesù ha subito assomiglia a tante situazioni che continuano a ripetersi, ancora oggi, nel nostro mondo. Poco fa, nell’ufficio di sesta, abbiamo ascoltato ancora una delle lamentazioni di Geremia. Abbiamo sentito rievocare fatti di una disumanità che ci sconcerta. Ma ciò che più dovrebbe sconcertarci è che quel testo non ci parla solo di passato: parla del nostro presente. Perché questo avviene ancora oggi, nel nostro mondo.
Eppure al termine del racconto della passione, Giovanni, rievocando la profezia di Zaccaria, dice: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37; Zac 12,10). Volgere lo sguardo... ma per vedere cosa? Cos’ha da dire, oggi, a noi, quell’uomo trafitto? Un essere umano che, come il servo di cui parla Isaia, “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi” e “davanti al quale ci si copre la faccia” (Is 53,2). Non sarebbe meglio coprirlo quel volto, anziché guardarlo? O coprire il nostro, per non guardare?
Dobbiamo invece guardare... Innanzitutto per vedere la violenza di cui siamo capaci. Di cui il nostro narcisismo è capace! Ed è bene guardare a quel Crocifisso, sostare su quel volto sfigurato, simile a quello di cui parla Isaia, tanto sfigurato da non apparire più umano (cf. Is 52,14), perché Gesù crocifisso raccoglie in sé la memoria di tutti gli uomini e donne umiliati. Li raccoglie, affinché nulla vada perduto.
Ma in quel Crocifisso l’occhio della fede, istruito dalle Scritture, sa vedere anche altro: quello che Isaia chiama la piaga che guarisce le nostre ferite (cf. Is 53,5). Una piaga che guarisce. Una via possibile, per curare la nostra umanità ferita. Un’altra umanità possibile... Proprio quell’uomo afono e anonimo, che, come dice ancora Isaia, “si è caricato delle nostre sofferenze”, delle “nostre colpe” e delle “nostre iniquità” (Is 53,4-5); la cui derelizione ci ha radunati (cf. Is 53,6); la cui innocenza è diventata salvezza per il popolo e luce per lui: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce” (Is 53,11).
Lo sguardo, dunque, che noi in quest’ora volgiamo al Crocifisso non è né di commiserazione, né di ammirazione. Quello che stiamo vivendo non è né una liturgia funebre né la commemorazione di un eroe. Siamo qui per fare memoria del male e del bene, della violenza e di quello che la vince, della morte e della vita che già affiora nelle pieghe di una passione e di una morte vissute come Gesù le ha vissute.
Siamo qui per contemplare il senso di una vita, quella di Gesù, che acquista senso mentre sembra perderlo. La croce è infatti la via con cui Gesù ha potuto entrare nella morte, senza farsene vincere, cioè senza rinunciare a ciò che più gli era caro, che abbiamo sentito risuonare ieri sera nel testo della lavanda: l’amore dei suoi fino alla fine. Entrando così nella passione e nella morte, l’ha scardinata. Ecco la croce: un amore che non ignora il male, ma vi penetra, scardinandolo dall’interno.
Lo ricorda Isacco il Siro quando dice: “La morte di nostro Signore non fu per liberarci dai peccati. Nient’affatto! O per qualcos’altro. Ma solo perché il mondo sperimentasse l’amore che Dio ha per la creazione” (Centurie IV,78).
A quell’amore che il Crocifisso narra vogliamo dunque volgere i nostri sguardi, per lasciare che le nostre vite ne siano trasformate, per imparare da lui, lasciando che sia lui il Signore delle nostre esistenze: ispiratore dei nostri sentimenti, dei nostri pensieri e delle nostre azioni.
Lungo la sua vita Gesù aveva mostrato di essere il Signore. Aveva fatto dei segni: aveva trasformato l’acqua nel vino della gioia; a un cieco dalla nascita aveva aperto gli occhi permettendogli di vedere la luce per la prima volta; aveva richiamato in vita l’amico Lazzaro... Ma per il quarto vangelo Gesù mostra la sua signoria soprattutto nella passione: nel modo in cui affronta quella passione! Proprio lì, egli è il Signore della storia, della vita e della morte. Perché Signore della “sua” vita e della “sua” morte. Signore... perché libero di deporre la vita, di offrirla, di non tenerla per sé. E questo Giovanni lo esplicita mettendo in luce il modo in cui Gesù agisce i vari frangenti della passione.
Nel giardino dove fu catturato, complice uno dei suoi discepoli, Giuda, Gesù mostra la sua signoria restando fedele, perseverando. Rinunciando di darsi alla fuga. Per due volte chiede ai soldati: “Chi cercate” (vv. 18,4.6); e per due volte risponde: “Sono io” (vv. 18,5 e 8). Un atteggiamento che non ha nulla di eroico, ma dice solo fedeltà a chi ha amato e che ama ancora e fino al prezzo della vita. Lo mostra la sua preoccupazione che non venga fatto del male ai suoi: “Se cercate me, lasciate che questi se ne vadano” (v. 18,8-9). Ecco un primo volto della signoria di Gesù: la fedeltà a chi si ama.
Poco oltre, nell’episodio di Pietro che tenta di difendere Gesù con la spada (cf. vv. 18,10-11), ne abbiamo un altro: rifiuta la violenza in suo favore. Non solo non chiede ai suoi di intervenire per difenderlo, ma li ferma. Non tollera di essere liberato in quel modo. Non solo non strumentalizza altri a proprio beneficio, ma impedisce che essi si macchino per difendere lui.
Nell’interrogatorio davanti ad Anna, presentato come il sommo sacerdote – ciò che in realtà non era - e dove è trattato con una violenza ingiustificata, schiaffeggiato da chi non ha altri argomenti per replicare, Gesù mostra la sua signoria con una domanda semplice quanto efficace, chiede conto: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (v. 18,23). La sua è la grandezza di chi resta uomo, con la propria dignità, anche quando tutto intorno a lui è marciume e violenza. E la sua fermezza ferma la violenza e svela la falsità di quella situazione. Di risposta, infatti, Giovanni annota: “Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote” (v. 18,24). Anna non replica e per di più svela di non essere quello che aveva fatto credere di essere (cf. v. 18,19). Ci sono domande che sono più efficaci di qualsiasi giustificazione.
Anche davanti all’autorità politica, Gesù resta il Signore. Non si lascia travolgere dalle accuse che gli sono mosse contro dai capi, né da Pilato che cerca solo di disfarsi di un caso increscioso senza fastidi. Gesù sa attraversare anche l’opportunismo dell’uomo di governo, che bada non alla giustizia ma alla sua posizione da preservare. Pilato infatti ripete per tre volte che Gesù è innocente (cf. vv. 18,38; 19,4.6) ma non rischia per liberarlo, perché ha paura (cf. v. 19,8). E anche in quel confronto Gesù mostra la sua signoria, perché non rinuncia a cercare di risvegliare la dignità di un essere umano; gli parla di verità (cf. v. 18,37). Ma per un uomo di potere “che cos’è la verità?” (v. 18,38). Una domanda che sulla bocca di Pilato, in quel momento, non ha nulla di filosofico. Ha invece il sapore sarcastico di chi dice: ma sei ancora uno di quelli che credono nella verità? In un mondo come questo? Ebbene Gesù mostra la sua signoria, continuando a credere nella verità! Anche in quella situazione.
Durante la crocifissione, Gesù mostra la sua signoria con il silenzio, indicando che ci sono momenti in cui la dignità impone il silenzio. Davanti alla supponenza dei capi che cavillano sulla scritta posta sulla croce e davanti alla prepotenza dei soldati che si spartiscono le sue vesti, Gesù tace. C’è anche una signoria che si esercita in silenzio, quando non è più tempo né di domandare né di affermare, ma di tacere. Con un silenzio aperto e non rancoroso, ma semplicemente... silenzioso.
Tuttavia, prima di morire, Gesù riprende a parlare. La prima parola è di cura per altri: la madre e il discepolo amato (cf. vv. 19,26-27). Sta morendo... ma neanche in quel momento il suo sguardo si concentra su se stesso. Altra manifestazione della sua signoria: la sofferenza non lo ripiega su di sé. Non sa vedere solo la propria pena, ma anche quella degli altri. Gesù sa continuare a vedere la sofferenza dell’altro, proprio mentre anche lui soffre, e di una sofferenza ben più grande.
Infine, altre due brevi parole, con cui nel quarto vangelo si conclude l’esistenza terrena di Gesù. Due parole di segno opposto, ma con cui Giovanni mette in luce gli ultimi due tratti della signoria di Gesù: “Ho sete” (v. 19,28) e: “È compiuto” (v. 19,30). Parole distanti perché nella prima Gesù esprime il suo bisogno, nella seconda la sua padronanza. Quest’ultima è più facile da comprendere, perché in evidente continuità con la signoria sin qui mostrata da Gesù: è lui stesso a dichiarare la fine.
Ma perché quella sete? Certo, Giovanni precisa, “affinché si compisse la Scrittura”. Ma quella sete è preziosa per comprendere il carattere proprio della signoria di Gesù. Una signoria che non soffoca il bisogno, che resta umana: non ha nulla di eroico. Quella sete ci ricorda che attraversare il male senza farsene abbrutire non significa diventare insensibili. E poi quella sete è preghiera, riecheggia parole di salmi: Sal 22,16, ma anche 42,2: “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente”. E dunque rimanda al Padre.
Nel Crocifisso dunque sono raccolti il male e il bene, la morte e la vita. Nella passione ci è mostrato come Gesù ha saputo attraversare situazioni di morte rimanendo il Signore, rimanendo l’essere umano e il Figlio di Dio. A noi, alla nostra umanità, questa contemplazione chiede di fare spazio a questa signoria, a lasciare che entri nelle nostre vite e nelle nostre relazioni.
Un’antica tradizione osserva che Gesù muore sulla croce lo stesso giorno della settimana in cui, secondo la Genesi, il Creatore aveva plasmato Adamo (venerdì). Ritiene dunque che la croce sia il luogo in cui l’essere umano è ricreato, e un’altra umanità è mostrata possibile, proprio nella disumanità più greve. Lasciamoci anche noi ricreare da questa signoria di Dio, e il nostro mondo troverà la via della pace.