È ancora tempo di ecumenismo?

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Lettera agli amici - Qiqajon di Bose n. 74 - Trasfigurazione 2023

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È ancora tempo di ecumenismo? Una domanda per nulla retorica in un momento come quello che stiamo attraversando. I nostri sono infatti giorni di profonde contraddizioni che si manifestano a tanti livelli. La nostra realtà è quella di un’umanità ancora segnata da guerre e tragedie di popoli in fuga i quali, invece di accoglienza, trovano morte. È quella di Chiese e comunità religiose che tentano di fare i conti con contraddizioni a lungo ignorate, che vedono emergere divisioni al loro interno, che cercano affannosamente una direzione che sembra smarrita.

Ma perché in tutto questo tirare in ballo l’ecumenismo? Perché dichiararne il fallimento? Perché in questo le Chiese e le comunità religiose hanno la loro responsabilità! Quella che si combatte in Ucraina non è una guerra come tante altre, ma interpella noi cristiani in modo particolare. Quanto accade in molte comunità cristiane non è equiparabile a tanti altri scandali, ma interpella noi credenti in modo particolare. Proprio quel dialogo, riscoperto e affinato in un secolo di esperienze ecumeniche, che ci hanno fatto ardere il cuore, avrebbe dovuto fare da argine in questi momenti di crisi. E invece così non è stato! E invece così non è!

La reazione, dunque, di chi dichiara il fallimento dell’ecumenismo è comprensibile. Inoltre varie organizzazioni ecumeniche nazionali o internazionali mostrano evidenti segni di affaticamento. I dialoghi teologici sembrano indugiare in diatribe insormontabili, incrostate da secoli di incomprensioni e ormai incomprensibili in un mondo percorso da un movimento di scristianizzazione riguardante non più solo le Chiese cattolica e riformate ma anche quelle ortodosse, e interessato da un altro moto “ecumenico”, che invece sembra portare i suoi frutti: quella globalizzazione che spazza via barriere che altri vorrebbero difendere, anche facendo uso delle Chiese e del sentimento “religioso”

Questo è ciò che appare a molti, e ha una sua verità, che forse andrebbe però collocata in una visione più ampia: l’ecumenismo con le sue difficoltà non è forse solo un ambito specifico di una crisi ben più ampia, quella della presenza e della leggibilità del cristianesimo e della sua testimonianza nel mondo contemporaneo? Le tensioni fra le diverse Chiese o la loro incapacità di porsi come artigiane di pace e di dialogo non è forse anche la conseguenza di una “esculturazione” del cristianesimo dal modo di pensare, di ragionare e di agire della cultura e della politica odierne? Non segnala in modo tragico l’irrilevanza delle esigenze evangeliche, almeno come esse sono veicolate oggi dalle Chiese e dai cristiani?

Ma questo – per l’ecumenismo come per l’incidenza delle Chiese nelle nostre società – non è tutto, per chi sa vedere in profondità. Altro accade, e continua ad accadere. Solo che per essere percepito ha bisogno di occhi attenti e soprattutto di memoria. Di fatto ci eravamo abituati a eventi, collaborazioni, scambi e sguardi, che non erano per nulla scontati se confrontati con la realtà anche solo di cinquant’anni fa. E su questi ci siamo adagiati, e ora li guardiamo con nostalgia e rimpianto oppure con disillusione, dimenticando che la gratitudine per i “tempi di grazia” vissuti non è solo un sentimento, ma anche e forse soprattutto un impegno a custodire, curare e rinnovare il bonum che ci è stato consegnato come eredità.

Forse è poco. Troppo poco! Ma non può essere sacrificato all’amarezza di chi dichiara l’irrimediabile fallimento dell’ecumenismo. Anche perché senza, saremmo ancora più poveri e disperati... La speranza che animava il movimento ecumenico – e che era anche obbedienza al comandamento di Gesù – rimane davanti a noi come dono e compito. La situazione attuale ci può apparire come l’ammasso dei cocci di una sconfitta – e ciò non dobbiamo nasconderlo – ma non può giustificare la rinuncia alla responsabilità che ancora ci compete e al compito faticoso di una ridefinizione del percorso da seguire nell’ecumenismo, in questo tempo e nel futuro.

Certo è, infatti, che siamo giunti a un punto in cui è necessario rivedere forme e modalità dell’ecumenismo. Forse anche gli obiettivi. Non per ridimensionare le attese, ma per ampliarle, facendo tesoro del cammino compiuto e dei risultati conseguiti. Dobbiamo continuare a sperare e a operare per la piena unità visibile, quella che gli iniziatori del movimento ecumenico avevano sperato un secolo fa, di vedere cioè presto restaurata la comunione sacramentale e nello stesso tempo dobbiamo anche cogliere un altro frutto e coltivarlo con maggiore consapevolezza.

Papa Francesco richiama ripetutamente, come modello per la vita della Chiesa e prima ancora per la convivenza tra esseri umani, il cammino e i percorsi avviati. In una realtà umana e religiosa segnata da divisioni e contraddizioni di ogni genere, cosa resta se non la caparbia determinazione a non smettere di camminare, pur divisi, pur distanti, pur incapaci di comprendersi fino in fondo?

Magari scopriremo che già il cammino è un frutto! Lo aveva compreso il grande poeta neogreco Konstantinos Kavafis nella sua meravigliosa Itaca. Ci è dato di camminare insieme, e questo non è poco, perché mentre camminiamo verso un’unità che a tratti ci pare lontana, abbiamo il camminare che è importante, che ha un valore grande, in sé stesso. Continuare a camminare insieme e, camminando, scoprirsi sempre meno estranei è già un frutto. Certo, custodendo nel cuore il desiderio dell’unità piena e sacramentale, e operando e pregando per questo.

Questo “cammino comune” s’invera per tante strade. La strada che papa Francesco ha chiamato “ecumenismo del sangue” o “ecumenismo della santità”, cioè il riconoscimento della vita data per Cristo o della santità che si scorge al di là del proprio recinto ecclesiale. La storia ce ne offre vari esempi. Proprio qualche settimana fa ne abbiamo avuto una prova ulteriore e inedita, di portata storica: l’11 maggio, accogliendo a Roma il patriarca copto di Alessandria, Tawadros, papa Francesco ha ricordato i 21 copti decapitati dall’ISIS in Libia, il 15 febbraio 2015 e ha dichiarato: “Con il consenso di Vostra Santità, questi 21 martiri saranno inseriti nel Martirologio Romano come segno della comunione spirituale che unisce le nostre due Chiese”. È un fatto straordinario che una Chiesa accolga ufficialmente nel proprio calendario liturgico santi di una Chiesa con cui non è in piena comunione sacramentale, e per di più riconoscendo valido il processo di canonizzazione dell’altra Chiesa.

Vi è poi la via meglio nota del “dialogo teologico” che, nonostante il suo avanzare faticoso e lento, non manca di offrire contributi importanti. Anche qui limitiamoci all’ultimo frutto. A inizio giugno la Commissione mista internazionale per il dialogo tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa si è incontrata ad Alessandria d’Egitto e ha approvato un nuovo documento, molto importante per l’avanzamento del dialogo, intitolato: “Sinodalità e primato nel secondo millennio e oggi”. Un testo complesso: per il tema affrontato, il primato e il suo rapporto con la sinodalità; per il periodo preso in esame, cioè il secondo millennio, quando si sono consumate divisioni in cui l’esercizio del primato romano ha parte della responsabilità; per il contesto in cui la Commissione si è ritrovata a operare, un tempo in cui le Chiese ortodosse attraversano una dolorosa crisi interna.

C’è infine il “dialogo della vita”, da non sottovalutare perché si rivela sempre più significativo, non solo numericamente. L’arrivo in Occidente di popolazioni appartenenti ad altre confessioni religiose e la conseguente collaborazione a tanti livelli tra cristiani di varie appartenenze sta creando un contesto nuovo, estremamente favorevole all’ecumenismo e alla stessa rilevanza del cristianesimo nella società. Sta infatti offrendo ciò di cui l’annuncio cristiano e l’ecumenismo hanno più bisogno per svilupparsi e portare frutto: il coinvolgimento del popolo di Dio nel movimento ecumenico che per decenni ha interessato solo gli addetti ai lavori e pochi altri appassionati. Ora invece cresce sempre più una conoscenza reciproca “alla base”, che si realizza per varie vie: relazioni di vicinato, collaborazioni lavorative, interazioni di vario genere. In questo rientrano anche le crescenti relazioni tra comunità religiose appartenenti a Chiese diverse o anche la compresenza in una medesima comunità di cristiani di diverse confessioni; un fenomeno che si fa sempre meno estemporaneo e accidentale e che chiede un riconoscimento dalla sicura portata ecumenica.

Cosa resta dunque dell’ecumenismo? Cosa resta delle nostre comunità pure sinceramente desiderose di comunione piena e duratura? Resta la responsabilità di una dura e perseverante lotta contro la divisione che è in ciascuno di noi e che non smetterà mai di muoverci guerra. E resta il frutto di un cammino in atto, nonostante tutto, e sempre possibile: un cammino nell’umiltà, in cui si sia disposti a incontrarsi nella verità. Camminando insieme, nel rispetto reciproco, nel coraggio di un ascolto profondo e sincero, troveremo la possibilità di uno sguardo sempre più onesto, più limpido e dunque fraterno.

Per questo è ancora tempo di ecumenismo! Perché è l’unica via, finché resteremo su questa terra. Perché non saremo mai tanto pacificati da poterne fare a meno. Perché non saremo mai così tanto lacerati da dover rinunciare a sperare.

I fratelli e le sorelle di Bose

Bose, 11 luglio 2023
Festa di san Benedetto, monaco

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