fr. Luciano: Fare silenzio per imparare da Gesù a vivere la nostra umanità

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10 agosto 2017
Intervista a fr. Luciano di Giovanna Pasqualin Traversa per SIR

Cercano risposte di senso e una declinazione della fede capace di parlare all’umano e di incrociarne drammi e sofferenze; trovano un’accoglienza incondizionata che non giudica e non chiede nulla. Un luogo in cui preghiera e silenzio diventano azione. Per questo le persone vanno a Bose. A colloquio con il priore, fratel Luciano Manicardi

Anche quest’estate un calendario ricco di appuntamenti. L’offerta del monastero di Bose è varia e articolata: corsi biblici e di spiritualità, incontri per giovani, proposte per famiglie, esercizi spirituali per sacerdoti. Insomma ce n’è per tutti i gusti. E la risposta è sempre molto buona.

Fratel Manicardi, che cosa cerca la gente a Bose? Di quale tipo di spiritualità ha sete?
Non cerca una spiritualità particolare, ma gli elementi comuni e basilari della vita spirituale di ogni cristiano, dunque del battezzato, ma vissuti da monaci, da persone che si situano nel celibato e nella vita cenobitica. Il primato della Parola di Dio ascoltata nella lectio divina, meditata in corsi di approfondimento biblico, celebrata nella liturgia, è certamente uno degli elementi che stanno al cuore di ciò che cercano gli ospiti da noi. Anche la dimensione ecumenica, che riguarda tanto la composizione della comunità, quanto la sua preghiera e il suo “pensare”, è elemento importante. Soprattutto le persone
cercano una declinazione della fede tesa al livello pratico dell’esistenza, capace di intersecare e toccare le problematiche e i drammi della vita, in una parola, attenta all’umano ed eloquente per la persona.

Vangelo come scuola di umanità?
Sì, come esigenza radicale che intende raggiungere le profondità della persona – corpo, mente, spirito –, dunque la sua integralità. Che riguarda la sfera intellettuale ed emotiva, volitiva e affettiva, l’interiorità e la relazionalità, la dimensione ecclesiale e quella sociale. Cercano soprattutto la concretezza dell’incontro con una comunità di monaci e monache con cui possono confrontarsi con semplicità e umanità e vedere confermata la loro vocazione di sposati o presbiteri o religiosi dal confronto con chi vive la comune vocazione battesimale in una forma differente.

Che cosa trovano, come se ne vanno?
Normalmente sono molto colpite dalla qualità fraterna, sobria, dell’accoglienza, che sperimentano tanto nei modi dell’ospitalità (discrezione e attenzione alla persona, possibilità di colloqui personali e di incontri fraterni, quindi alloggio, vitto, paesaggio, cura delle case e degli ambienti) quanto nella liturgia.

Il mistero della vita, la domanda di senso, la ricerca di felicità abitano il cuore di ogni uomo, credente e non. Che risposta o che strumenti di ricerca offrite?
Più che risposte, cerchiamo di offrire – e sottolineo il “cerchiamo” – ascolto e accoglienza. Dimensioni che significano

un sì incondizionato alle persone
senza chiedere, senza porre condizioni previe, senza nulla pretendere di sapere di loro, ma solo accogliendo ciò che di sé intendono comunicare. E, ovviamente, senza mai giudicare.

Cerchiamo di offrire una declinazione della fede sempre attenta alla sua fondatezza antropologica, di motivare e rendere ragione delle parole e dei gesti della fede mostrandone la capacità di parlare all’umano, di interpellare e orientare l’umanità delle persone.
Cerchiamo di offrire una lettura delle Scritture aperta al problema del senso e capace di illuminare le situazioni esistenziali e di farsene provocare. Cerchiamo di offrire una preghiera liturgica in cui il linguaggio sia accessibile e possa realmente nutrire una vita di fede. Cerchiamo di offrire meditazioni e riflessioni attente all’oggi e a ciò che si muove nel mondo della cultura, del pensiero, dell’arte. Cerchiamo di coltivare la bellezza, che rappresenta non solo una promessa di felicità, ma anche un linguaggio che può raggiungere ogni uomo, indipendentemente dai suoi orientamenti di pensiero e dalle sue credenze.

L’immagine di Bose evoca due elementi che oggi appaiono in conflitto con il nostro stile di vita: il silenzio a fronte dei ritmi frenetici e rumorosi del nostro quotidiano, e il vivere in comunità a fronte dell’individualismo esasperato che pervade la nostra società. Quanto queste due caratteristiche attraggono e interpellano?
Dell’essenzialità di alcune dimensioni del vivere ci si accorge soprattutto quando, venute a mancare, si inizia a sentirne la nostalgia: è così per il silenzio, per la solitudine, per la comunità. Chi va in un monastero cerca sempre un’occasione di ritiro, di conoscenza di sé, di discernimento sulla propria vita, e dunque il monastero deve potergli offrire solitudine e silenzio. Ma cerca anche, in tempi di scomparsa della comunità e di crisi dell’appartenenza, una preghiera comunitaria e la vita in un contesto in cui i diversi lavorano, pregano, vivono insieme non perché si sono scelti ma per una comune, libera, adesione al vangelo e un unico anelito di radicalità cristiana. Senza cadere in schematismi che non renderebbero ragione della realtà,
mi pare che i giovani siano particolarmente colpiti dalla dimensione comunitaria, mentre il silenzio e il ritiro sono cercati soprattutto da persone più “grandi”.

Il silenzio è una dimensione umana essenziale?
Sì. In tempi di ipertrofia dell’informazione e di scialo delle parole,
l’uomo, l’essere che ha la parola, è anche l’essere che sa “fare silenzio”. Ovvero, fare del silenzio un’azione interiore che può dare fondamento spirituale al vivere.

Solitudine e silenzio sono sentiti come necessari per un’igiene dell’anima, un’ecologia dello spirito, per nutrire una relazione feconda con se stessi. E per ritrovare i tratti essenziali della relazione con gli altri, gli elementi basilari di una grammatica dell’umano che aiuti anche a vivere con armonia quelle relazioni quotidiane – famigliari, amicali, lavorative – che sono spesso al cuore di squilibri, violenze, abusi, disfunzionamenti e che creano tanta sofferenza.

Oggi in Italia c’è una grande povertà economica – confermata anche dai dati Istat diffusi qualche giorno fa – e relazionale, che è anche peggio. In quale misura incide sulla visione della vita e sulla “domanda” di spiritualità delle persone?
Sempre più spesso ci visitano sia persone che hanno perso il lavoro o non lo trovano, che si trovano in ristrettezze economiche e chiedono un aiuto materiale, sia, soprattutto, persone con povertà relazionali che vivono situazioni di abbandono, di rottura con la famiglia, di solitudine subita e dolorosa, di malattia. Queste persone ci sollecitano a sviluppare l’arte dell’ascolto e della compassione, cioè del porsi di fronte all’altro sentendone l’unicità e cogliendone la radicale preziosità e precarietà.

La forma spirituale con cui andare incontro alle situazioni di povertà relazionale è quella di dare tempo, ascolto, parola, presenza.
Ed eventualmente, inserire tutto questo in una certa durata e continuità. Creare, per quanto possibile, consentito e chiesto dalla persona stessa, una relazione. La domanda di spiritualità si declina così come domanda di relazione e può divenire un rapporto di accompagnamento.

Lei terrà un corso su quotidianità e Vangelo. Che cosa ha da dire oggi la Parola di Gesù e quanto si incarna nella nostra vita?
Il quotidiano è il luogo del culto esistenziale, la realtà di ciò che si celebra nel rito. Interessarsi del quotidiano è necessario perché spesso ciò che è familiare non per questo è conosciuto, anzi. Il quotidiano ci avvolge – nulla esiste fuori di esso – e proprio perché vi siamo immersi, richiede attenzione e riflessione. Un primo livello è dunque rendersi coscienti e farsi presenti agli oggetti e agli ambienti, alle parole e ai gesti, alle relazioni e agli incontri del quotidiano spesso sviliti dall’abitudine, o attraversati dalla noia, o minati dalla superficialità, o semplicemente rimossi, non più notati. Esercizio spirituale fondamentale sarebbe re-imparare la facoltà dello stupore che oggi, nel tempo in cui il mondo intero si offre a noi su uno schermo attraverso un click, è gravemente minacciata. E occorre chiedersi come sia cambiato il nostro quotidiano oggi e da cosa sia costituito. Quindi occorre vedere come il Vangelo ci interpella su questa che è la dimensione esistenziale odierna.

Si tratta di valorizzare la dimensione sapienziale della persona e della figura di Gesù, ampiamente attestata nei Vangeli, di cogliere il suo rapporto con la realtà, il lavoro, gli oggetti, gli animali, le piante, le persone, la natura, Dio, e di apprendere dalla sua umanità, formata alla scuola del quotidiano, per dar forma alla nostra umanità. Non ne nasce una visione integralista o fondamentalista del cristianesimo, ma di profondità: essenziale è la vigilanza, la consapevolezza, l’essere presenti a se stessi, alla realtà e agli altri, a ciò che si fa e si dice.

Perché la vigilanza?
Perché senza vigilanza, la quotidianità diviene il luogo in cui si preparano le nostre catastrofi personali, famigliari, sociali.
Un po’ come avvenne per la generazione di Noé: allora tutti “mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, compravano e vendevano, piantavano e costruivano” (Lc 17,27-28) e non si resero conto di nulla, “non si accorsero di nulla” (Mt 24,39), quando venne il diluvio e li travolse tutti.
Il quotidiano a volte non è che la storia del prepararsi della tragedia: perché anche l’ineluttabile ha una storia.

Ecco allora che le parole di Gesù e le narrazioni evangeliche possono svelare un retroterra che ci mostra come Gesù si rapporta al quotidiano e ci insegna a vivere la nostra umanità nel quotidiano: dalla capacità di “dire di no” al mettersi nei panni degli altri, dalla non ipocrisia alla fatica della solitudine, dallo sguardo altro e radicale sulla realtà al coraggio di osare la propria originalità. Insomma si tratta di discernere l’umanità di Gesù e di “imparare da lui” (Mt 11,29) che “ci insegna a vivere” (Tt 2,12).

Nell’ottobre 2018 il Sinodo dedicato ai giovani, generazione in buona parte disillusa e scoraggiata. “Il coraggio di vivere. Dalla Bibbia ai giorni nostri”. Perché?
Certamente i giovani oggi fanno parte di una generazione penalizzata dagli adulti, ancor più e prima che disillusa e scoraggiata. Ma che hanno bisogno di incontrare chi sappia infondere in loro fiducia “credendo in loro”, chi sappia aiutarli a riconoscere e nominare le risorse e le potenzialità che hanno in se stessi e che sono anche risorse di futuro. Perché il futuro nasce “anche” dall’interiorità. Si tratta di sviluppare immaginazione, creatività, desiderio e anche coraggio.
Il coraggio è virtù del “cor”, del cuore, della persona tutta, è capacità di cominciare, di esercitare la libertà dando inizio a qualcosa e non limitandosi a scegliere tra le mille possibilità già offerte.
Stretti fra promesse non mantenute, trasmissione esperienziale non avvenuta, e imperativo di responsabilità che esige da loro di “essere se stessi”, di costruire la propria identità, di reggere i differenti legami sociali, i giovani sono tentati dalla fuga da sé, dall’erranza e dall’anonimato, dallo sballo, dall’estrema mobilità delle amicizie, dalla scomparsa nel virtuale, dal preferire la connessione alla relazione. Insomma, occorre coraggio per stare al mondo.

Per lei, che cosa significa avere coraggio?

Significa agire “malgrado”, vivere “nonostante”.

Comprendendo che la realtà ha il grande compito di opporre resistenze alla persona permettendole così di darsi una forma nell’incontro-scontro con essa. La Bibbia presenta una quantità di figure del coraggio che possono – se adeguatamente accostate con penetrazione psicologica e lucidità antropologica – parlare al giovane di oggi. Esempi?
Abramo, o il coraggio di partire per l’ignoto; Mosè, o il coraggio della solidarietà; Rut, o il coraggio dell’amore fedele; Giobbe, o il coraggio nel dolore; Gesù, o il coraggio della libertà …