L'iperbole dell'amore in mezzo a noi

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Pubblichiamo l’omelia dell’arcivescovo di Palermo + Corrado Lorefice in occasione dell’ordinazione presbiterale di fr. Emanuele  a Bose il 20 settembre 2020

Carissime Sorelle, Carissimi Fratelli, Carissimo Fra Luciano, Carissimo Fratello Vescovo Roberto,

giungo qui quasi di corsa, da Palermo, in questo pomeriggio speciale. E arrivo di fretta, da così lontano, condotto da un filo invisibile e resistente, il filo di quei legami che si creano nella vita, fatti di carne e di sangue, di affetto, di rispetto, di dolore anche, di volti e di nomi. Arrivo sulla scorta della mia amicizia e della mia prossimità a Bose: alla vostra comunità, alla sua storia, alla sua esperienza. Arrivo qui a nome di tanti amici di Palermo e di Modica, nel segno della gioia per chi c’è e del pensiero colmo d’amore per chi non c’è ma è qui in qualche modo tra di noi, come il nostro grande amico Piero, a cui tu Emanuele hai dedicato un ricordo toccante, dopo un incontro fugace e intenso a Modica, a San Pietro, in quella comunità che per me è come una seconda famiglia d’origine.

Per questo credo che stasera ci sia facile immedesimarci nel Vangelo, con l’atmosfera cioè che doveva regnare quella sera nel cenacolo, per come Luca ce la restituisce. Luca infatti è l’unico degli evangelisti che in maniera esplicita, raccontando l’ultima cena, ci apre il cuore di Gesù, ci fa cogliere il suo vissuto: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi» (Lc 22, 15). Il testo greco è in verità difficilmente traducibile in italiano, perché fa riferimento all’animo (thymos) inteso come sede della vita, del pensiero, della passione, della volontà, e ne prefigura uno sconvolgimento in cui tutto l’essere è chiamato in causa. La vita, l’intelligenza, il volere, i sentimenti di Gesù vibrano all’unisono – nel racconto di Luca – per dare il senso dell’accoratezza, della tristezza, del fremito, della determinazione appassionata e sofferta. Come se Gesù dicesse: “ho pensato, ho desiderato, ho voluto con tutto me stesso questa cena con voi”. «Con voi». Senza il ‘con voi’ non si capisce nulla. L’Eucaristia nasce in quella notte non in quanto atto sacrale, ma come frutto maturo di una relazione intima, di un tessuto di rapporti e di incontri, di un intreccio reale di esistenze reciprocamente coinvolte nella ricerca di un senso, di una salvezza. Così è per noi stasera, riuniti da un sentire viscerale che ci raccoglie nella celebrazione di questo memoriale e senza il quale l’Eucaristia rischia di restare una rappresentazione sacra priva della ‘materia’ essenziale della convivialità tra amici, nella distretta, nel tempo decisivo della vita. Come lo è per te, carissimo Emanuele, come lo è per noi.

È la profonda umanità di quanto è accaduto a Gerusalemme quella sera che si irradia fino a questa celebrazione. L’abbiamo cominciata – questa celebrazione – ricordandoci che siamo peccatori. Abbiamo iniziato il nostro incontro confessando a Dio e confessandoci – perché la parola ‘confessare’ significa questo fondamentalmente: dire la verità –, [abbiamo iniziato] dicendo la verità su noi stessi, ammettendo la nostra fatica, i nostri errori, le nostre incongruenze, la nostra difficoltà ad essere fedeli alla parola che ci è stata consegnata. Ce lo siamo detti, memori della sapienza di Paolo nella lettera ai Corinti: «abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (2Cor 4,7). La creta è un materiale primordiale, dice la dipendenza dalla terra, la disponibilità e la delicatezza. La creta si plasma e si rompe, accoglie e disperde, custodisce e dissipa. Così siamo noi. In questa oscillazione, in questo dinamismo si esprimono la povertà e la grandezza della nostra umanità e delle nostre relazioni. Ma Paolo sa – e noi ce lo siamo ripetuti – che quello che conta è il perdono di Dio, è l’evento di un’accoglienza che ci oltrepassa, che è più grande di noi, in forza della quale siamo raccolti. Essa è posta al di là di tutto. È l’accoglienza ultima e suprema del Padre di Gesù che Paolo esprime con una parola bellissima: portiamo questo tesoro in vasi di creta «affinché l’iperbole della potenza sia di Dio e (non sembri venire) da noi» (2Cor 4,7). Nella hyperbolé c’è appunto l’idea dell’andare al di là, del sorpassare, come se stasera potessimo dirci l’un l’altro che Dio è andato al di là della nostra fragilità, l’ha sorpassata oltre ogni limite. Ed è questo che ci annunciamo l’un l’altro – carissimo Emanuele –, questo perdono più grande che investe le nostre esistenze, ricordandoci che l’opera della salvezza non ci appartiene, che l’iperbole è di Dio, che a essere iperbolico è il suo perdono e non la nostra capacità di amare.

Tutto questo accade ogni volta, all’inizio di ogni Eucaristia, perché il perdono ci precede ma il peccato non ci abbandona. In maniera drammatica, in una sorta di farsa tragica, nella stessa notte in cui il Figlio dell’uomo viene consegnato i discepoli aprono la disputa su chi sia il più grande tra di loro (cfr Lc 22,24). L’Eucaristia, secondo Luca, è sempre insidiata e incompresa. Si colloca in uno spazio non aereo, non celeste. Non accade sulle nuvole. Si celebra e accade dentro il nostro smarrimento, dentro il nostro tradimento. Sì, certo, in quella notte il tradimento è di Giuda. Ma raccontandoci la contesa dei commensali, degli altri amici di Gesù, l’evangelista pare metterci sull’avviso: la sorgente di ogni tradimento è la brama del potere, la volontà di primeggiare sugli altri. Essa abita stabilmente nella Chiesa. Giuda non è da solo. Il suo tradimento è il nostro. Nessuno può tirarsi fuori. Siamo noi che celebriamo la cena, che conosciamo l’amore fino alla fine del Figlio di Dio, noi seduti a tavola con lui, siamo noi a tradirlo e a essere vittime della voglia di dominio e di potere. Quel potere che ha accompagnato come un tarlo la storia della Chiesa, insidiandone l’annuncio. Quel potere che è il vero contrario, il vero antonimo della povertà. O si è poveri o si è potenti. Perché – continua Luca – il potere di questo mondo è così subdolo da potersi manifestare come benevolenza, come realizzazione apparente del bene. I re di questo mondo sono i potenti che si fanno chiamare benefattori (cfr Lc 22,25). Lo dico di passaggio: la tragedia collettiva, la tragedia mondiale che stiamo attraversando esige – dentro la Chiesa e fuori dalla Chiesa – donne e uomini che non nascondano la serpe del potere sotto le sembianze rassicuranti del bene, ma in silenzio e senza pretendere nulla si affidino alla verità della vita, alla potenza di Dio.

L’Eucaristia è dunque il racconto di questa iperbole dell’amore che ci chiama. Di un amore – lo abbiamo capito – che non scende dall’alto ma è in mezzo a noi (Lc 22,27: en meso hymòn). Dobbiamo costantemente fare memoria di questa collocazione radicale: Dio ci ama in Gesù di Nazareth come uno che sta in mezzo, come uno che si compromette, che si coinvolge. Il Dio dell’Evangelo non è il Dio della purezza religiosa, dello scrupolo devozionale. Lasciatemi dire che non è anzitutto il Dio delle schiere celesti ma il Dio della compagnia lacera e disfatta delle donne e degli uomini toccati dalla vita, feriti dagli eventi. Dio sta in mezzo ai disperati, ai piangenti, a chi non trova soccorso, ai soli, ai moribondi, in mezzo a noi nella nostra profonda e decisiva povertà. L’Eucaristia è questo dono, è la memoria viva di tutto questo: dell’accoglienza radicale e preveniente di un amore impensabile, iperbolico, che dimora e accompagna la vita di ogni essere, nessuno escluso: nemmeno un passero cade a terra senza che il Padre lo voglia (cfr Mt 10,29)… ricordiamocelo. La natura di questo amore ce la rammenta ancora Paolo. Eleéthemen: ci è stata usata misericordia (cfr 2Cor 4,1). L’Eucaristia ci immette nell’abbraccio di questa misericordia che ci è data in dono. In greco, curiosamente, la parola da cui proviene il verbo usato da Paolo – il sostantivo èleos – ha lo stesso aspetto grafico e fonetico (pur con diversa radice) della parola eleòs, che significa ‘mensa’ ‘desco’. Tralasciando la filologia, potremmo dire che la misericordia, l’amore viscerale di Dio si manifesta a tavola. A tavola, d’altronde, con le prostitute e i peccatori questo amore si è fatto vedere. E forse – come ha detto qualcuno – Gesù ha istituito il memoriale di quella notte per insegnarci a cenare assieme, a condividere la tavola, a fare del mondo lo spazio di un grande banchetto di condivisione e di gioia.

È questo il senso del mandato che ricevi stasera, carissimo Emanuele. «Per la misericordia che ci è stata usata – dice ancora Paolo – abbiamo ricevuto questo ministero, questa diakonia» (2Cor 4,1). La misericordia e la diaconia stanno l’una accanto all’altra. L’Eucaristia manda (ite, missa est) ogni discepolo, ogni donna e ogni uomo che la celebra, ad annunciare e a testimoniare l’amore ricevuto. È questa la diaconia della Chiesa e non per nulla la parola che scrive Paolo è la stessa di quella usata da Gesù in Luca: «come un diacono (os ho diakonòn) io sono in mezzo a voi» (Lc 22,27). La diaconia del Figlio e quella dei credenti nel suo nome sono la medesima cosa. Tu, Emanuele carissimo, ricevi questo pomeriggio l’unzione che fa di te un presbitero, uno cioè che presiede nella comunità celebrante il memoriale della Pasqua e che è dunque deputato a precederla e a guidarla nel «portare ai poveri la buona notizia, nel fasciare le piaghe dei cuori spezzati, nel proclamare la libertà degli schiavi, nell’annunciare la libertà ai prigionieri, nel promulgare l’anno senza fine della misericordia di Dio» (cfr Is, 61,1-2; Lc 4,18-19) per il mondo, per tutti. La parola di Isaia rappresenti la stella polare di ogni tuo atto da presbitero del popolo di Dio, non dimenticando mai – come ci ha ricordato Luca – che per essere presbiteri davvero bisogna essere neòteroi: chi vuole essere il più grande sia il più piccolo, sia il minore (cfr Lc 22,26). Ti sia fratello e icona su questa strada ‒ come suggerisce la Regola di Bose (n. 8) ‒ Francesco d’Assisi che scelse la via della minorità per essere un padre diverso dagli altri, per essere un cristiano fedele al Vangelo, sulla scia di Gesù che lavò i piedi a colui che lo tradiva. Francesco pensò e visse l’Eucaristia così: come il dono dell’ultimo, del lebbroso, del peccatore, del nemico con cui condividere le fatiche del giorno e il pane quotidiano. Perché solo rimanendo accanto all’altro da minore, da neòteros, non presupponendo nulla di sé ma ritenendo di non avere primati o diritti rispetto a qualunque compagno di strada, accettando tutti, chinandosi sulle ferite di tutti, poteva ricevere in queste esperienze semplici e radicali la grazia della salvezza: «Essendo nei peccati, troppo amaro mi sembrava vedere i lebbrosi. Il Signore mi condusse da essi…» (Testamento 1226). «Quindi ‒ come si legge nella Regola di Bose ‒ tu metterai con umiltà al servizio degli altri il tuo carisma affinché la comunità sia edificata e sostenuta» (n. 17).

Il Crisma, l’olio di oliva arricchito di essenze profumate, che ti consacra per questa missione, si effonda abbondantemente su di te, carissimo Emanuele, e propaghi la sua fragranza vivificante per tutti i giorni della tua vita arricchita di fratelli e di sorelle. È l’olio che «assicura il ministero sacramentale alla comunità» (Regola di Bose, 45), che rafforza e profuma, che addolcisce e lenisce, che idrata e ripara. Sia così la tua vita. Sia così il tuo mandato da oggi in poi. Che la tua presenza e la tua parola siano sempre più «un segno di amore fraterno» (Regola di Bose, 12), una mano tesa per le tue sorelle e i tuoi fratelli di comunità per «unire e riconciliare ciò che è opposto» (Regola di Bose, 12), un punto di forza per i più deboli, un effluvio di bellezza per i cercatori di Dio, un dolce lenimento per i feriti e gli affaticati, una sorgente d’acqua fresca e pura per gli assetati di consolazione e di senso. Finché non venga il Regno, finché non si compia la promessa che con questi atti decisi, con questi atteggiamenti vitali, tu anticipi e anticiperai quotidianamente insieme a questa comunità che ti è stata donata. Si tratta in fondo della stessa speranza coltivata dal nostro Signore in quella notte di Pasqua. Anche lui, come noi, ‘in mezzo a noi’, in quella notte, proferì le parole dell’attesa, si assimilò a noi nella speranza del compimento (Lc 22,16: plerotê), confessò la distanza tra la sua vita che finiva e il Regno che sarebbe venuto ma ancora non veniva. «Fino a quando…». Lui che amava il vino bevuto a tavola con gli amici, sentiva che sarebbe stata l’ultima volta e voleva che quella notte preconizzasse il momento ultimo, si spingesse verso la festa nuova e definitiva del vino del Regno.

Siamo ancora qui, anche noi, stasera, con Colui che ci è fratello ed è figlio del Dio benedetto, a sperare e a invocare, con tutto il creato, che il Regno giunga, che la giustizia e la misericordia si incontrino e germogli la pace, che tutte le lacrime siano asciugate, che una città luminosa e accogliente – dove nessuno sia discriminato e abbandonato – si installi a compimento del sogno di Dio. Attendere è doloroso. Attendere è difficile. Attendere costa, soprattutto se – come fu per Abramo nostro padre nella fede e per il nuovo Abramo, Gesù di Nazareth – [se] si percepisce la fine e non resta che la speranza. Gesù però nel cenacolo, forte dell’amore che il Padre gli aveva donato, della cura materna e paterna che aveva ricevuto nella sua famiglia, da Maria e da Giuseppe, di quel che aveva imparato per le strade del mondo da quanti aveva incontrato – come la donna di Canaan, che indirizzò bruscamente la sua missione verso i pagani (cfr Mt 15,22-28) –, forte di tutto questo Gesù non visse quella cena alla stregua di una fine senza orizzonti, ma volle renderla nella fede un’anticipazione del Regno. Spezzò il pane e fece girare il calice ‒ come ancora oggi facciamo noi ‒, perché il Padre si ricordasse di lui, della sua consegna di sé, affrettando la venuta del Regno. Sia la tua vita, carissimo Emanuele, sulla via della sequela del Signore, «pronto a pregare e a vegliare finché Cristo venga» (Regola di Bose, 35), un segno di speranza e di attesa – potente e fiduciosa, aperta e dura –; sia in questa comunità monastica e per chi ti incontra un pegno, una caparra di una terra e di un cielo che non ci stanchiamo di credere e invocare. Amen.