La pratica del silenzio

Fratelli, sorelle

nel leggere i tempi critici che stiamo vivendo – ovvero la situazione comunitaria che ha portato alla visita apostolica e le conseguenti decisioni comunicate alla comunità, la pandemia e la sua influenza sulla vita comunitaria, i riflessi che questi eventi hanno nelle esistenze di diversi fratelli e sorelle singolarmente presi – vi è un aspetto che può sembrare periferico, marginale, non importante, ma che forse è indicatore di una carenza che si è venuta a creare col tempo in comunità. Ancora molti anni fa, si sottolineava l’incapacità della comunità di vivere adeguatamente il silenzio. Un tempo si poteva addurre la giovinezza della comunità. Ora questo non è più vero e anzi, spesso i giovani sembrano più sensibili a questa dimensione umana e spirituale basilare per una vita monastica e cenobitica. Non sto a ricordare le diverse volte che la Regola parla del silenzio, perché il problema è la pratica, il vissuto, non le affermazioni. Dobbiamo riconoscere che abbiamo ecceduto in parole, che ancora oggi leggiamo e ascoltiamo tante parole, che rispetto a ieri i mezzi di comunicazione, i quotidiani, la rete, i social, e il possesso incontrollato e l’uso non ordinato di questi mezzi (pensiamo a chi passa ore e ore al giorno a telefonare anche in cella) ci tolgono la forza di rimanere in silenzio e di abitarlo e di entrare davvero in noi stessi e così anche di avere una vita di preghiera personale che possa sostenerci. Rischiamo di non pregare più.

Ma ancor prima, rischiamo di non poterci più appoggiare a quel silenzio che può essere terapeutico e fare pulizia nel torbido interiore che ci abita. Il cattivo uso della parola e le disfunzioni comunicative, che creano patologie relazionali gravi, hanno la loro origine anche in un’assenza della pratica del silenzio. Di quel silenzio, almeno, che è un lavoro, un’azione, un fare silenzio, non un mero tacere. E coinvolge tutta la persona in una scelta e decisione interiore, in un atto di volontà. E poi ci dovremmo far interrogare dal fatto che manchiamo di occasioni per fare silenzio insieme, per costruire la comunità in e su un silenzio condiviso. Un silenzio che può essere sperimentato almeno un po’ quando alcuni si trovano in chiesa, nella penombra, un po’ di tempo prima dell’inizio degli uffici.

Sappiamo bene, e non ci dovrebbe essere bisogno di ricordarlo, che il silenzio ha la forza di mettere ordine nel nostro caos interiore, di mitigare i nostri istinti, di passare al setaccio e purificare i nostri pensieri, di rettificare le nostre visioni degli altri, di darci momenti di pace e serenità, e dunque anche di donarci una certa integrità. Il silenzio, soprattutto, ci consente di cercare di vivere ciò che diciamo di voler vivere, radica in noi la convinzione dell’esistenza che conduciamo, dà autorevolezza alle parole che pronunciamo strappandole ai rischi della superficialità, della banalità e della violenza.

Il silenzio è poi essenziale per costruire rapporti sani e rispettosi nella vita comune quotidiana. Nel silenzio io faccio abitare gli altri in me stesso, e così mitigo il rapporto che posso avere con loro che altrimenti è lasciato in balia degli impulsi e delle emozioni. Il silenzio ci fa abitare concentrati sulla presenza del Signore in noi consentendoci l’esercizio di farci abitare dalla sua parola interiorizzandola. E così ci consente anche di pervenire a una pratica di ascolto degna di questo nome. Altrimenti anche l’ascolto resta oggetto di parola e non diviene pratica trasformativa. Che cioè trasforma noi e le nostre relazioni.

Perciò, fratelli e sorelle, siamo sobri e vigilanti perché il nostro Avversario, il Divisore, come leone ruggente si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede e radicati nel silenzio che crea la pace in noi e tra di noi. E tu, Signore, abbi pietà di noi.

fratel Luciano