Dire io per dire noi

Photo by Joshua Fernandez on Unsplash
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Fratelli, sorelle,

nella nostra Regola, nel capitolo dedicato alla probazione, si dice che la professione porta il candidato a pronunciare il suo “sì totale, irrevocabile, libero, all’appello a vivere il celibato e la vita comune secondo lo spirito della Regola” (RBo 11).

Dietro a quel sì caratterizzato da totalità, irrevocabilità e libertà vi è in realtà una storia lunga e impegnativa che riguarda la fede del singolo, riguarda la responsabilità della comunità e la qualità delle relazioni e dei comportamenti che essa mette in atto, ma in particolare, riguarda il discernimento vocazionale, la valutazione attenta della qualità umana, creaturale, della persona che chiede di entrare nella vita monastica, e poi, soprattutto, la formazione. Ovvero, riguarda il lavoro da mettere in atto affinché sia possibile arrivare a pronunciare un sì totale, irrevocabile e libero. O almeno, il più possibile totale, irrevocabile e libero. Perché sappiamo benissimo quante volte questi nella vita monastica si sono rivelati più tardi, col trascorrere del tempo, dei sì parziali, revocabili e revocati e anche poco liberi.

Totale significa che riguarda tutta quanta la persona, il suo corpo, la sua affettività e sessualità, la relazionalità e la dimensione psicologica, la sua dimensione razionale ed emotiva. Totale significa che nell’atto della professione occorrerebbe anche essere giunti a una sintesi della propria storia personale, una sintesi non meramente intellettuale, ma incorporata, assunta, per raccoglierla e portarla davanti al Signore con un grazie per ciò che si è vissuto nel passato, con l’assunzione delle ferite subite, con il riconoscimento dei limiti, delle debolezze e delle negatività che ci abitano, e con un sì fiducioso al futuro. Abbracciando anche il futuro, questo sì totale implica che una persona non possa pensare che una volta fatta la professione o pronunciato il proprio sì essa possa sentirsi esentata dall’avere un riferimento spirituale e un aiuto nel cammino di maturazione umana e spirituale. Anzi, questo è uno degli errori di pratica spirituale più frequenti e banali. E più letali. Il pensare di potersela cavare da soli. Il non avere bisogno di nessuno, ma di fare di se stessi la propria guida spirituale. Totale significa anche non individualista, non solitario, e implica l’affidamento a un altro, a un padre spirituale, così come a una comunità. Altrimenti siamo di fronte ancora una volta all’illusione e all’abbaglio.

Il sì irrevocabile impegna il futuro di una persona e certamente questa dimensione è oggi particolarmente problematica perché la definitività è contraria alla mobilità estrema degli stati d’animo e del divenire personale. È contraria alle infinite possibilità e occasioni che la vita ci presenta. Ed è difficile perché si radica in una adesione di fede che diviene bussola che orienta la vita personale in mezzo a intemperie e ostacoli, a tentazioni e suggestioni, e anche questo stabilire una bussola interiore di fede è a caro prezzo.

Ma poi questo sì deve essere libero. Il sì libero significa che la persona deve essere in grado di dire “io”. Non nel senso dell’egocentrismo, ma nel senso espresso magnificamente da Benedetto nella sua Regola quando scrive: “Cercando il suo operaio il Signore dice: ‘Chi è l’uomo che vuole la vita e brama di vedere giorni buoni?’ Se tu, sentendo questo, rispondi: ‘Io’, Dio ti dice di nuovo: ‘Se vuoi avere la vita vera ed eterna, custodisci dal male la tua lingua e le tue labbra da parole d’inganno; allontanati dal male e fa’ il bene; cerca la pace e perseguila’” (Prologo 14-17). Dire io è essenziale per poter dire noi. Senza questo movimento interiore anche la sinodalità diventa parola vuota. Se il cammino monastico diviene dipendenza da un altro, abdicazione al proprio pensare, delega ad altri, sottomissione, paura di esprimere ciò che si pensa e si sente, allora non vi è libertà e uno non sta vivendo un sì libero. E noi sappiamo bene come solo le persone libere possono essere obbedienti. Se si giunge a dipendenze affettive, a quelli che spesso in comunità sono stati chiamati “rapporti fusionali”, a legami psicologici schiavizzanti o perfino a complicità inestricabili, non vi è libertà. Ecco allora che è decisivo nel lavoro formativo perseguire e sollecitare da parte del maestro o della maestra la libertà e la soggettività del novizio o della novizia. Il far emergere il desiderio profondo della persona e incoraggiarla ad osarlo perché anche la vita monastica può essere cercata come nido o rifugio o luogo sicuro o protezione. Può dunque avere dietro di sé come motivazione la paura, non la libertà.

Perciò, fratelli e sorelle, siamo sobri e vigilanti perché il nostro Avversario, il Divisore, come leone ruggente si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede e perseveranti nel sì totale, irreversibile e libero alla nostra vocazione. E tu, Signore, abbi tanta pietà di noi.

fratel Luciano