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Pâques du Seigneur


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Tuttavia Pietro vuole verificare, si separa dal gruppo che non credeva e va al sepolcro. Anzi, Luca dice che Pietro in quell’alba fa una corsa – come scriverà anche il quarto vangelo (cf. Gv 20,3) – e constata che il corpo morto di Gesù non è più là. Pietro resta nello stupore, nella meraviglia, ma non giunge a credere. L’itinerario di Pietro non è diverso da quello delle donne e non è diverso da quello dell’insieme degli Undici: c’è una grande fatica da fare per credere alla resurrezione. E anche per Pietro occorrerà la rivelazione, occorrerà che il Signore con una sua iniziativa alzi il velo, e proprio a lui Gesù stesso si mostrerà personalmente quale Vivente. Il Credo della chiesa primitiva lo dirà: «Gesù risorto è apparso innanzitutto a Simone, a Pietro». E anche in Luca, quando i discepoli di Emmaus saranno giunti alla fede e torneranno dagli altri Undici a Gerusalemme, sentiranno ormai il grido della comunità: «Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone!» (Lc 24,34).

Sì, c’è una grande fatica da fare per credere alla resurrezione: per i discepoli, per le discepole, per Pietro e anche per noi. Luca con questo racconto non vuole convincerci della resurrezione di Gesù, vuole soltanto indicarci una strada per credere. Qual è questo cammino che egli traccia? Ci dice che occorre avere il coraggio di cercare, di andare, di essere smossi, di vincere l’inerzia e l’ignavia, di andare e di correre come hanno fatto le donne in quell’alba, o come ha fatto Pietro. Ma tutto questo non basta, non basta neanche il legame di amore con Gesù. Occorre leggere le Scritture, occorre lasciare che i due uomini didascali e interpreti, Mosè ed Elia, ci rivelino il grande mistero, e quindi occorre davvero che le Scritture siano ascoltate, lette, ricordate, ripensate (cf. Lc 24,25-27.44-46). E occorre soprattutto arrivare a leggere la passione e morte di Gesù come un cammino che Gesù ha subìto perché gli uomini sono ingiusti, e dunque non attendersi dopo la morte in croce una rivincita, una smentita della morte e della passione. Questo non è cristiano: la resurrezione non è né la smentita né la vendetta, ma è sempre nella stessa logica di amore vissuto e contraddetto, un amore che, come la luce, non può essere sopraffatto.

Noi siamo tutti increduli, come le donne, come i discepoli, come Pietro. Confessiamolo: a volte non riusciamo a credere alla resurrezione, alla vittoria dell’amore sulla morte, non riusciamo soprattutto credere all’amore più forte della morte. La vita che noi viviamo contraddice in mille modi questa speranza; e il mondo e la società così come sono, non ci danno motivi di speranza. Neanche la comunità, neanche la chiesa sono capaci di sostenerci in questa fatica a credere. Ma a noi, a ciascuno di noi è fatto un invito: non basta il sepolcro vuoto, non bastano assolutamente i nostri sentimenti, occorre credere all’amore, o almeno in un suo tentativo; occorre almeno fare della speranza, come dice la Lettera agli Ebrei, un appiglio, un’ancora alla quale stringerci (cf. Eb 6,18). Eppure l’essere qui ancora e il vivere come abbiamo vissuto queste ore, questi giorni, può essere solo dovuto al fatto che il Risorto ci attira a sé, che il Risorto innalzato attira tutti noi a sé. In questo sentirci attirati non sentiamoci molto lontani dai nostri fratelli non cristiani e increduli; ma anzi, chiediamo al Signore che, come attira noi e attirando noi, attiri anche loro.

ENZO BIANCHI, priore di Bose