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Mangiare: non solo un fatto di gusto

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circle fooddi Luciano Manicardi

Per entrare nella dimensione spirituale insita nel mangiare occorre analizzare il gusto nella sua materialità. Se il gusto è la capacità di discernere i sapori degli alimenti, l’atto di mangiare è un atto sensoriale totale, che investe tutti i sensi.1 Per valutare un cibo entrano in gioco diverse modalità sensoriali in bocca: gustativa, tattile, termica. La bocca, questo organo così simbolicamente importante perché soglia tra interiorità ed esteriorità, attua la prova della verità del cibo facendo non solo passare il cibo dall’esterno dell’uomo alla sua interiorità fino a ingerirlo e digerirlo, ma anche cogliendo l’interiorità del cibo stesso, facendolo passare dal suo aspetto esteriore alla sua interiorità e questo attraverso la sua distruzione, la sua masticazione. Ora, l’opera di gustare il sapore di un cibo richiede l’alleanza dei sensi.

L’olfatto: l’aroma dei cibi, percepito per via retronasale, è essenziale. Già il profumo ci invoglia o ci respinge. L’olfatto è il gusto preliminare. Con l’odorato, noi già pregustiamo il sapore del cibo. Possiamo dire che si mangia anche con il naso.

La vista: il modo in cui un cibo è presentato e una vivanda è servita in tavola è decisivo. Vi è un rapporto diretto fra apparenza e appetenza. Il giallo solare di un risotto allo zafferano è una festa degli occhi. Lo sguardo anticipa il sapore del cibo attivando le esperienze anteriori che la persona ha memorizzato e mettendo in moto l’elaborazione simbolica del reale. Diversi esperimenti hanno mostrato che cibi squisiti a cui si è data forma di animali o di altre sostanze sentite come repellenti hanno suscitato reazioni di disgusto e rifiuto di assaggiarli. Versare un vino raffinato in un bicchiere di metallo (che non consente neppure di valutare i riflessi rubino o violaceo del vino) o servire una deliziosa portata su un piatto di plastica fa perdere ai cibi buona parte della loro attrattiva. Stiamo già ammiccando al gusto come metafora, al gusto inteso come senso del bello. Nella cucina giapponese i servizi di legno laccato sono preferibili a quelli in porcellana perché gradevoli al tatto, non pesanti, non rumorosi. Per Junichiro Tanizaki la cucina giapponese la si guarda e la si medita mentre la si gusta, a partire dalla scelta delle stoviglie: "Chi tiene tra le mani una stoviglia di porcellana la sente fredda e pesante. Temibile conduttrice di calore, è scomoda da maneggiare se la si riempie di cibi caldi. Urtata, rintocca sinistramente. Al contrario, i servizi di legno laccato sono leggeri, gradevoli al tatto, delicati, non rumorosi. La minestra la si serve ancora nelle ciotole di legno laccato: esse hanno virtù che mancano a quelle di ceramica o di porcellana".2

Il tatto interviene valutando la consistenza dei cibi, molli o duri, cremosi, capaci di sciogliersi in bocca; la stessa sensibilità termica della bocca è importante per apprezzare il gusto di un cibo. L’antropologo Leroi-Gourhan ha scritto che "il gusto gastronomico è legato in linea generale al sapore e alla consistenza, e a volte più alla seconda che al primo".3

L’udito. Esiste la sonorità di un alimento: il carattere croccante di un’insalata o delle fette biscottate o del pane appena sfornato … Ma poi il senso dell’udito è implicato nel fatto che antropologicamente si mangia insieme e la tavola è luogo di scambio, dunque di discorso. A tavola non si scambia solo il cibo, ma anche la parola.

In sintesi: "la bocca è istanza di frontiera tra dentro e fuori: dà luogo alla parola, al respiro, ma anche al sapore delle cose e il gusto non può essere dissociato da questa matrice nella quale si mescolano i diversi sensi".4

1 Cf. D. Le Breton, Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina, Milano 2007, pp. 335-348.

2 J. Tanizaki, Libro d’ombra, Bompiani, Milano 2000, p. 33.

3 A. Leroi-Gourhan, Ambiente e tecniche, a cura di Marco Fiorini, con uno scritto di Alberto Cirese, vol. II di Evoluzione e tecniche, Jaca Book, Milano 1994, p. 120.

4 Le Breton, op. cit., p. 344.