La fede tra solitudine e comunione

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XVIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
COMUNIONE E SOLITUDINE NELLA TRADIZIONE ORTODOSSA
Bose, 7-10 settembre 2011
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

Liberal, 14 settembre 2010
di Sergio Valzania

«In mancanza di fortuna, ci aiuterà la disgrazia», questa ottimistica sentenza popolare russa, riferita alla situazione della religiosità dei tempi in cui viviamo, era contenuta nel messaggio augurale del metropolita di Minsk rivolto ai partecipanti al XVIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa, che si è svolto da martedì a sabato della settimana scorsa presso il monastero di Bose, in Piemonte. Seguendo uno di quegli itinerari nei quali i credenti riconoscono il disegno divino, i rappresentanti delle chiese ortodosse di tutto il mondo hanno confermato la loro disponibilità all’incontro e al confronto in un luogo apparentemente incongruo, appartato nelle Prealpi, non lontano da Biella.

Scorrere l’elenco dei partecipanti alle giornate di studio organizzate dalle comunità raccolta intorno alla figura prestigiosa di Enzo Bianchi è emozionante. I luoghi di provenienza di vescovi, primati, metropoliti e semplici monaci sono i più lontani: dall’Inghilterra alla Russia, dalla Grecia alla Serbia, dalla Francia alla Romania e poi alla Siria, l’Ucraina, l’Armenia, la Svizzera, il Belgio, la Bulgaria, la Germania, l’Egitto e il Portogallo. Molto varie anche le provenienze dall’Italia di partecipanti desiderosi di conoscere una spiritualità prossima a quella cattolica e che siamo destinati a incontrare con intensità sempre maggiore sotto la spinta di flussi migratori imponenti provenienti dai paesi dell’est, Romania, Bulgaria e Ucraina in particolare. Già oggi il cristianesimo ortodosso è la seconda religione del nostro paese come numero di fedeli, superiore anche a quello degli islamici. Una delle motivazioni profonde del convegno sta appunto nell’incontro amicale tra fedeli di confessioni prossime ma non coincidenti, con un passato di contrasti nei quali la politica ha pesato molto, e nell’espressione di un’aspirazione all’unità delle chiese sottolineata dalla liturgia.

La giornata iniziale, l’8 settembre, festa della Natalità di Maria, momento iniziale per la manifestazione storica del mistero dell’incarnazione, è stata scandita dallo svolgimento di due celebrazioni eucaristiche. Di primissimo mattino, secondo la tradizione, si è svolto il rito ortodosso, a mezzogiorno quello cattolico, con la partecipazione congiunta dei fedeli delle diverse chiese, ciascuno attento e rispettoso dell’altro.Tutto il corso dei lavori è stato poi scandito, come di consueto, dai ritmi di preghiera del monastero di Bose, la cui ospitalità comprende il gesto affettuoso del canto comune dei salmi al mattino, a mezzogiorno e alla sera.

L’argomento dell’edizione di quest’anno del convegno di spiritualità ortodossa è stato “Comunione e Solitudine”, tema radicato nella tradizione monastica orientale e che in passato fu motivo per contrasti molto accesi. I due termini hanno una valenza chiara per l’uomo della società contemporanea, timoroso della solitudine, del silenzio e dell’isolamento come del peggiore dei mali. Per lui la scelta a favore del rapporto con gli altri uomini, a qualunque costo, appare di tutta evidenza. Vivere senza telefono cellulare gli appare impossibile. Ben diversa è la condizione del monaco, il cui nome deriva dal greco monos, unico, e individua una vocazione al distacco dal mondo e quindi a una qualche forma non superficiale di solitudine. Ma fino a che punto è lecito spingersi in questo processo di allontanamento, e di rifiuto, dagli altri, dalla comunione con i propri simili e con la chiesa stessa, strumento necessario per la salvezza? È consentito a un tralcio della vite pretendere di trovare da solo una via che lo colleghi alle radici della pianta, o si tratta di un gesto di peccaminosa arroganza? Da queste riflessione nasce la tensione fra la comunione monastica, che esalta l’organizzazione cenobitica del monastero, con le sue regole, le sue gerarchie, la guida autorevole dell’abate, e la ricerca eroica e senza mediazioni di un rapporto individuale con Dio, rischiosa per la difficoltà della gestione di una vita senza conforti né confronti. Le due concezioni divergenti hanno innervato la storia del monachesimo e ancora danno vita alle diverse esperienze esistenti, in un equilibrio in costante ridefinizione. Nel corso delle loro comunicazioni molti relatori hanno fatto riferimento alla figura della croce quale simbolo della situazione spirituale nella quale vive il monaco, chiamato a mediare fra la verticalità di un rapporto diretto con Dio e l’orizzontalità della comunione con i fratelli e con la chiesa, nella consapevolezza che non ci si salva mai da soli. Il punto d’equilibrio non è univoco e al monaco che desidera addentrasi lungo il percorso dell’eremo, dopo un lungo tirocinio comunitario, è necessaria la capacità di non cedere alla tentazione di chiudersi nelproprio isolamento, con il rischio di rimanerne schiacciato.

Molti esempi storici proposti nel convegno di Bose mostrano la tendenza positiva a compiere un percorso che va dalla comunità all’eremo, che si trasforma in nuova comunità raccolta intorno all’eremita, al quale si assegna il ruolo di abate. Dopo un periodo di guida del nuovo monastero di solito segue un ulteriore e definitivo periodo di raccoglimento nella solitudine, interrotta solo da brevi visite di confratelli che si recano dal maestro per chiedergli consiglio. La solitudine vive infatti su due piani, quello immediato e quello esistenziale. Altra cosa per un monaco è stare solo nella cella di un convento, protett dalla comunità che lo circonda e indirizzato dall’autorità di un abate che regola i momenti della sua giornata, altra è vivere isolato, privo di contatti con altri uomini e soprattutto senza nessuna guida spirituale che lo sostenga nella “lotta contro il demonio” che certo gli capiterà di dover sostenere. Anche in un monastero, la solitudine rimane la dimensione esistenziale del monaco, per addestralo alla quale l’abate gli ordina con metodo e determinazione «vai nella tua cella e lei ti insegnerà ogni cosa ». L’obbiettivo dell’isolamento rimane comunque il raggiungimento della capacità di «vedere gli altri come li vede Dio», senza dimenticare mai l’ammonimento di san Basilio «a chi laverai i piedi, se vivi da solo?».

SERGIO VALZANIA