Messaggio di Irinej, Arcivescovo di Pec’, Metropolita di Belgrado-Karlovci e Patriarca di Serbia

XXV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa
IL DONO DELL'OSPITALITÁ
Monastero di Bose, 6-9 settembre 2017
in collaborazione con le Chiese ortodosse

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SANTO SINODO DEI VESCOVI
DELLA CHIESA ORTODOSSA SERBA

No. 935

Belgrado 1 Settembre 2017

Al Molto Reverendo Padre Enzo Bianchi
Al Molto Reverendo Padre Luciano Manicardi, Priore della Comunità Monastica di Bose, Italia

“… ero forestiero e mi avete accolto” (Mt  25,35)

Veneratissimo Padre Luciano, stimatissimo Padre Enzo, fondatore della Koinonia di Bose, Sua Santità Bartholomeos, Vostre Beatitutini, Eminenti e Reverendissimi Vescovi, reverendissimi padri, stimati professori e partecipanti a questo Simposio, cari fratelli e sorelle!

Con fraterno amore anche quest’anno rivolgiamo i nostri migliori auguri in occasione del XXV Convegno Internazionale Inter-Cristiano, organizzato ogni anno dalla vostra stimatissima comunità, e quest’anno dedicato al tema “Il dono dell’ospitalità”.

Nel corso dei loro due millenni di storia pieni di profondi insegnamenti, i cristiani hanno ornato e arricchito se stessi con molte virtù evangeliche, tra le quali l’ospitalità ha un posto speciale. In ogni situazione di vita, nella guerra e nella pace, nella gioia e nella tristezza, i cristiani hanno saputo come manifestare una sincera ospitalità: ad amici e a estranei, a invitati e a non invitati, al punto che l’ospitalità spesso si è convertita in vero sacrificio.

Nella prassi monastica è consuetudine che ogni ospite o viandante sia il benvenuto, per un certo periodo, come se fosse Cristo in persona. L’origine di questa consuetudine la si può trovare certamente nelle parole di Cristo: “…ero straniero e mi avete accolto (Mt 25,35). Insieme ad altre, queste parole, messe in risalto da Cristo come misura in base alla quale gli uomini devono essere giudicati nel giudizio finale, possono anche valere come criterio per stabilire la qualità del cammino spirituale che stanno percorrendo. Perché il Signore Gesù Cristo ha voluto mettere in risalto l’importanza di queste parole per il destino finale di ciascuno di noi? Chi è in realtà lo straniero da identificare con Cristo?

Nell’Antico Testamento vediamo che il popolo di Dio si considerava straniero. Israele era straniero in Egitto, come anche nella terra promessa, che era dono di Dio. Il Levitico di Mosè recita: “Voi siete presso di me come stranieri e inquilini” (Lv 25,23). Il tema dell’essere stranieri in Egitto e nella terra promessa passa anche nel Nuovo Testamento, dove Paolo ricorda ai cristiani che “la nostra cittadinanza è nei cieli” (Fil 3,20). La Lettera agli Ebrei dà anche testimonianza dei primi cristiani come stranieri in questo mondo: “Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città” (Eb 11,13-16). Il Salmista dice anche, a nome di ogni uomo: “Vivo come straniero sulla terra: non nascondermi i tuoi comandi” (Sal 119,19).

La provvidenza di Dio, nell’Antico come nel Nuovo Testamento, vuole che noi,i come popolo di Dio e singoli esseri umani, siamo stranieri, nuovi venuti e ospiti sulla Terra. Lo si comprende benissimo nei momenti di difficoltà individuale o nei rapporti reciproci, ma anche quando guardiamo in faccia la nostra stessa transitorietà. Come uomini e come cristiani, siamo coscienti che il numero dei nostri giorni è sempre piccolo e che il nostro tempo passa rapidamente, e che molto in questo tempo è mutevole e irregolare. Sappiamo che i giorni dell’ospitalità che Dio ci dà sulla terra sono incerti. Sappiamo che tutto ciò che possediamo non è nostro, cioè che ogni cosa è, in ultima analisi e in essenza, di Dio.

L’esperienza dell’essere stranieri è resa più acuta dalla nostra preghiera costante a Dio, che esprime il nostro desiderio di lui: “Venga il tuo Regno!” (Mt 6,10), cioè il desiderio che passi questo regno transitorio e instabile, e venga il Regno di Dio, dove non c’è tristezza, tormento o sospiro. Questa consapevolezza è particolarmente presente tra i cristiani che vivono nelle comunità monastiche, come ad esempio nella Comunità del Monastero di Bose, che, nello spirito del Vangelo, indichiamo come modello di fede forte, poiché essa accetta ed è consapevole di essere straniera e ospite sulla terra.

Il nostro essere stranieri è uno dei principi fondamentali della nostra fede. Se l’essere stranieri è una delle due facce della medaglia, allora l’ospitalità è l’altra faccia.. In questo senso, il Nuovo Testamento mette in relazione i termini “forestiero”, “straniero”, “ospite” e “ospitalità” con la persona stessa di Nostro Signore Gesù Cristo. In particolare, quando il Signore moltiplica i pani e sazia il popolo, quando dona il suo corpo e il suo sangue nell’ultima cena, quando ci istruisce con le parabole riguardo a quell’uomo che invitò tutti a un banchetto di festa, o a quello che preparò la festa di nozze per suo figlio, possiamo trasferire il motivo dell’ospitalità sul Creatore stesso, che amorevolmente ci accoglie e ci abbraccia come bisognosi, senza considerare le nostre differenze di religione o di nazionalità, di genere o di condizione sociale, la nostra dignità o indegnità, la nostra giustizia o il nostro peccato, anzi, attraverso il suo stesso sacrificio sulla croce nel nome del Padre, Egli ci accoglie e ci riceve come persone che si sono aperte alla sua venuta nel mondo, sebbene non tutti di fatto si aprano o vogliano essere accolti da Lui, secondo le parole del Prologo del Vangelo di Giovanni: “Egli venne presso ciò che è suo, eppure i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11).

Il Salvatore del mondo ha identificato se stesso con ogni essere umano, perché egli è venuto a salvare tutti, dal momento che tutti sono stranieri e ospiti sulla terra. Ecco perché ha detto: “Chiunque accoglie voi, accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (Mt 10,40). Accogliere e ricevere un fratello e un uomo che si trova nel bisogno, nella difficoltà e nel tormento, significa accogliere Colui che dona la capacità di ragionare e pensare. Quindi, la presenza del fratello che si trova nel bisogno ci mette alla prova: possiamo scegliere un comportamento consapevole, e cioè ragionevole; oppure il suo opposto. Accogliere e accettare il prossimo è comprensibile e ragionevole, mentre rifiutarlo e non avere sensibilità per lui che è nel bisogno – chiunque egli sia – è illogico e irrazionale, come il fatto di rifiutare Cristo e di non accettare la sua ospitalità.

Questo è ben compreso da sapienti monaci e monache, quando accolgono qualunque bisognoso bussi alla porta del loro monastero: essi cercano di compiere le parole dell’Apostolo: “Non trascurate l’ospitalità nei confronti dei forestieri, perché praticandola alcuni hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Eb 13,2). Dovremmo, dunque, sforzarci di non perdere l’occasione di accogliere degli angeli chiudendo il nostro cuore…

Con questi pensieri, grati per le vostre preghiere per la nostra Chiesa Ortodossa Serba e per il nostro popolo, salutiamo cordialmente il Simposio di quest’anno e invochiamo su di voi, sulla Comunità di Bose e su tutti i partecipanti al Simposio, la benedizione dell’Onnipotente e le preghiere di tutti i Santi, custodendo i nostri profondi sentimenti di rispetto e affetto in Cristo,

Il Presidente del Sinodo dei Vescovi
Arcivescovo di Pec’, Metropolita di Belgrado-Karlovci e Patriarca di Serbia
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