Ospitalità monastica e riconciliazione delle Chiese

XXV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa
IL DONO DELL'OSPITALITÁ
Monastero di Bose, 6-9 settembre 2017
in collaborazione con le Chiese ortodosse

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9 settembre 2017
Articolo pubblicato su L'Osservatore Romano

tratto dall'intervento di fr. Aloise di Taizé: Ospitalità monastica e riconciliazione delle Chiese

È con parole molto semplici che la nostra Regola di Taizé parla dell’ospitalità, sono parole che provengono direttamente dal Vangelo: «In un ospite, è il Cristo stesso che dobbiamo ricevere». In un altro capitolo della Regola, fratel Roger aggiunge: «Ama il tuo prossimo qualunque ne sia la visione religiosa o ideologica». Questo invito a un’ampia accoglienza, offerta a tutti senza distinzione, è in consonanza con la Regola di san Benedetto e tutta la tradizione monastica, orientale e occidentale. Pone la nostra ancora giovane comunità nella tradizione dei monasteri le cui porte sono sempre aperte.

Quanti pellegrini che vanno in un monastero sono colpiti dall’accoglienza che ricevono, un’accoglienza che non pone domande preliminari, come pure non richiede risposte fatte. Il pellegrino, se ne ha bisogno, è ascoltato pazientemente e senza alcun giudizio. Egli viene accolto innanzitutto nella preghiera comune. Può ripartire con il cuore e la mente rinnovati e rinfrescati.

Questo mi spinge a porre una prima domanda nella prospettiva della riconciliazione delle chiese: se coloro che vivono una vocazione monastica si trovano, pur essendo di diverse tradizioni, così vicini nella visione del loro ministero d’accoglienza — cioè discernere Cristo in ogni ospite — non sono forse in questo modo invitati a creare maggiori legami tra le rispettive chiese a cui appartengono? A causa della grande vicinanza che esiste tra loro, la ricerca della riconciliazione delle chiese non sta forse al cuore stesso della loro vocazione?

A Taizé, l'ospitalità si è sviluppata in tappe piuttosto diverse. Esse sono tuttavia unite da un legame profondo: fratel Roger era convinto che Dio fosse presente in ogni persona che incontrava, anche se questa non ne era consapevole. Era questo che lo portava a spalancare le porte del suo cuore e della sua casa. All’inizio della seconda guerra mondiale, quando era ancora solo a Taizé, riceveva già coloro che in quel momento ne avevano più bisogno, rifugiati che fuggivano, soprattutto ebrei che nascondeva per alcuni giorni. Non chiedeva loro chi erano, bastava dicessero solo il nome.

Più tardi negli anni, altri rifugiati sono stati accolti e fratel Roger li ha alloggiati in case del nostro villaggio borgognone: vedove vietnamite che fuggivano con i propri figli il regime del loro paese, una famiglia di Sarajevo dopo la guerra che aveva distrutto la loro città, un’altra famiglia dal Rwanda, della quale diversi suoi componenti erano stati massacrati dal genocidio.

Dopo la morte di fratel Roger noi abbiamo continuato. Attualmente alloggiamo tre famiglie dell’Iraq e della Siria, come anche giovani uomini provenienti da Sudan, Eritrea, Afghanistan. Posso testimoniare che riceviamo da loro più di quanto offriamo. Hanno conosciuto tante prove e per questo ci stimolano ad affrontare coraggiosamente le nostre difficoltà. Accoglierli rende i nostri cuori più aperti. Spesso ripeto loro, che siano cristiani o musulmani: è Dio che vi ha mandati a noi.

Subito dopo la seconda guerra mondiale, quando la comunità nasceva e muoveva i suoi primi passi, coloro che nella regione di Taizé avevano più bisogno d’accoglienza erano i bambini le cui famiglie erano state distrutte dagli eventi. Fratel Roger non ha esitato a raccoglierne una ventina e ha chiamato una sua sorella, ancora nubile, a venire a vivere con loro. Ella si è presa cura di essi fino alla maggiore età e al loro ingresso nella vita adulta. Questi ragazzi formavano come una famiglia, molto vicina alla comunità, molto amata dai fratelli. Forse è questa accoglienza di bambini in difficoltà che ha preparato la comunità a offrire più tardi l’ospitalità a un gran numero di giovani.

A poco a poco, a partire dalla fine degli anni Sessanta, i giovani hanno incominciato a trascorrere qualche giorno vicino alla comunità, sempre più numerosi, di Paesi sempre più diversi, portando con sé le loro inquietudini, talvolta le loro utopie, ma anche una grande generosità. Fratel Roger ha colto le loro speranze, ha prestato loro un orecchio attento e ha chiesto ai fratelli di dare a essi una grande accoglienza, anche se le condizioni materiali erano povere. Egli diceva: «Accogliamo per la preghiera, ma diamo da mangiare a ogni pellegrino, anche solo una scodella di riso». Per questa accoglienza, fratel Roger non voleva che i muri della chiesa costituissero un limite. Così un giorno del 1971 la facciata della nostra chiesa fu demolita per consentire un ampliamento che permettesse la partecipazione di tutti alla preghiera comune. Più tardi, l’apertura dei confini dell’Europa orientale ha fatto raddoppiare il numero dei giovani richiedendo un ulteriore ampliamento della chiesa.

L’ospitalità ricevuta allarga i cuori. L’accoglienza alla preghiera comune orienta lo sguardo di tutti verso ciò che ci supera, verso Colui che è al di là di tutto. E questo può avere conseguenze inaspettate. Durante le guerre nella ex Jugoslavia, giovani croati e giovani serbi si sono trovati insieme sulla nostra collina. Non era sempre semplice. Ma essere accolti con molti giovani provenienti da altri paesi, senza la necessità di giustificarsi o di difendere delle posizioni, permetteva loro di aprirsi gradualmente l’uno all’altro e persino scoprirsi amici. In questi ultimissimi anni, giovani russi e giovani ucraini, talvolta numerosi a Taizé, fanno un’esperienza simile.

Tutti questi giovani che accogliamo, non abbiamo mai voluto organizzarli in un movimento che facesse riferimento alla nostra comunità, preferiamo piuttosto accompagnarli quando tornano a casa loro, aiutandoli nel trovare come concretizzare la loro fede con un impegno della loro vita nelle proprie parrocchie, città e quartieri. Questo ci ha portato, ormai da molti anni, a organizzare riunioni di giovani in grandi città, incontri europei e ora anche incontri in altri continenti. Una delle specificità di questi incontri è l’ospitalità delle famiglie. I giovani provenienti da diversi paesi si riuniscono non solo tra di loro, ma ogni mattina pregano e poi vivono uno scambio con le persone della parrocchia presso le quali sono alloggiati. Offrendo ospitalità, gli adulti fanno crescere la fiducia tra le generazioni. È un po’ come se l’ospitalità praticata nei monasteri fosse estesa a migliaia di famiglie. Che queste aprano le loro porte a giovani che non conoscono e che forse non parlano la loro lingua, in un tempo in cui spesso si ha paura dei forestieri, mette in luce la vocazione della chiesa a essere luogo di comunione.

Come a Taizé, anche durante questi incontri l’accoglienza generosa favorisce una comprensione più profonda tra i popoli. A volte vediamo operarsi notevoli cambiamenti di mentalità, delle persone passano dalla diffidenza alla fiducia, delle riconciliazioni che si compiono. Per esempio, durante due incontri latinoamericani di giovani, nel 2007 in Bolivia e nel 2010 in Cile, quanti malintesi tra questi due paesi hanno potuto dissiparsi nel cuore dei giovani. Nel 2012, durante un incontro africano a Kigali, quante paure reciproche sono scomparse tra giovani rwandesi e congolesi.

L'ospitalità allarga i cuori, per questo essa è un cammino di riconciliazione delle Chiese. A Taizé, quando ci incontriamo tre volte al giorno nella Chiesa della Riconciliazione, la preghiera della nostra comunità riunisce giovani cattolici, protestanti e ortodossi. Per una settimana, i giovani condividono non solo la loro vita quotidiana, i pasti, i servizi, ma soprattutto la nostra preghiera comune. Siamo sorpresi nel constatare che si sentono profondamente uniti senza abbassare la loro fede al minimo denominatore comune e nemmeno livellare i loro valori. Si stabilisce un’armonia tra persone che appartengono a confessioni e culture differenti. Come è possibile? L’ospitalità che ricevono e la preghiera comune celebrata sotto un medesimo tetto permettono loro di fare un’esperienza di comunione. Allora i cuori si stupiscono, si aprono. Gli ospiti si chiedono quale sia la causa del legame che li unisce. Alcuni finiscono per trovare in Dio la fonte di un’unità che non ha confini.

Mi pare che qualcosa di simile capiti a Bose. Se l’ospitalità di una comunità monastica consente di anticipare l’unità, di vedere già un’immagine della riconciliazione delle chiese, perché non dovrebbe essere possibile altrove? Mi capita spesso di dire, pensando ai cristiani ancora divisi: senza ritardi, mettiamoci sotto lo stesso tetto. Offriamoci reciprocamente l’ospitalità. Accogliamo gli altri e lasciamoci accogliere dagli altri anche senza aspettare che tutti i punti di vista siano pienamente armonizzati. Non è forse giunto il momento di dare priorità alla nostra comune identità battesimale? In tutte le chiese è stata posta come prima cosa l’identità confessionale. Ci si definisce cattolico, protestante o ortodosso. In realtà, è l’identità battesimale che deve avere la priorità. «Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio!» (Colossesi, 3, 3).

Cristo dona l’unità quando e come vuole. Ma ancora bisogna ricevere questo dono. Se non ci mettiamo insieme, come può farci il dono dell’unità? È quando erano uniti sotto lo stesso tetto nella sala superiore a Gerusalemme che gli apostoli e Maria, e alcuni altri uomini e donne hanno ricevuto il dono dello Spirito santo. L’ospitalità è veramente importante. È quando siamo insieme, ospiti gli uni degli altri, che lo Spirito santo viene a unirci. Come possiamo metterci sotto uno stesso tetto nella vita di tutti i giorni? Facendo insieme tutto ciò che può essere fatto insieme: studio della Bibbia, lavoro sociale e pastorale, catechesi; e non fare più nulla senza tenere conto degli altri. Riunendo gli organismi che si adoperano nel fare le stesse cose. Compiendo insieme dei gesti di solidarietà di fronte alla miseria degli altri, ai problemi nascosti, alla situazione dei migranti, alla povertà materiale e a qualsiasi altra sofferenza, alla salvaguardia dell’ambiente. Trovarci insieme più spesso alla presenza di Dio nell’ascolto della sua Parola, nel silenzio e la lode. In molte città, la cattedrale o la chiesa principale non potrebbero diventare un simbolo di questa reciproca ospitalità, una casa di preghiera comune per tutti i cristiani del luogo?

Vorrei fare un ulteriore passo e dire che l’ospitalità non è solo l’accoglienza reciproca sotto un medesimo tetto. L’ospitalità va più in profondità, è anche l’accoglienza reciproca dei doni degli altri, fin dentro il nostro cuore e nella nostra mente. Come l’ha espresso Papa Francesco, «non si tratta solamente di ricevere informazioni sugli altri per conoscerli meglio, ma di raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi» (Evangelii gaudium, 246). Durante la sua visita in Svezia, in occasione del cinquecentesimo anniversario della Riforma protestante, il Papa lo ha ribadito in altro modo. Nella preghiera pronunciata nella cattedrale di Lund, ha espresso queste parole: «Spirito santo, donaci di riconoscere con gioia i doni che sono giunti alla Chiesa dalla Riforma».  Mi ha molto colpito partecipare a quella celebrazione. Nei mesi che seguirono mi sono chiesto come associarmi personalmente a questa preghiera di gratitudine. Provenendo da una famiglia cattolica, quali sono i doni delle altre chiese che ho accolto dentro di me e per cui ringraziare Dio?

Custodisco un ricordo indimenticabile dei pellegrinaggi che abbiamo fatto con dei giovani a Costantinopoli, per celebrare l’Epifania, e a Mosca, Kiev e Leopoli, Minsk, Bucarest, per celebrare la Pasqua. Le celebrazioni dei cristiani d’Oriente ci immergono nell’adorazione di Dio. Con la loro solennità, la loro bellezza, esprimono il mistero di Dio che ci supera infinitamente e che tuttavia è vicino. La fede incrollabile dei cristiani d’Oriente nella risurrezione di Cristo e nella presenza dello Spirito santo hanno rafforzato la mia. E ringrazio Dio per la forza che vi trovano e che ha permesso loro di attraversare decenni di sofferenza nei secoli passati e di stare saldi nelle attuali avversità, specialmente in Medio oriente. È una grande gioia accogliere numerosi gruppi di giovani ortodossi a Taizé. Spesso sono accompagnati da un prete e la divina liturgia è celebrata nella chiesa del nostro villaggio. Mi piace parteciparvi e lasciarmi accogliere nella loro preghiera.

E quali sono i doni delle chiese della Riforma che ho scoperto accanto a fratel Roger e ai primi fratelli della nostra comunità, doni che sono diventati vitali per la mia fede? In quest’anno che segna il cinquecentesimo anniversario della Riforma protestante, vorrei citarne quattro: il primato della Scrittura; l’affermazione che l’amore di Dio è incondizionato; il richiamo che tutti i credenti possono vivere una comunione personale con Dio e che coloro che hanno un ministero nella Chiesa sono al servizio di quella relazione personale di ogni credente con Dio; e infine la libertà di coscienza.

Continuando con i miei fratelli la riflessione sulla preghiera di ringraziamento del Papa a Lund, ci siamo posti la domanda: quelle parole del Papa non richiedono forse una risposta? L’accoglienza del Papa ai doni della Riforma non potrebbe essere un invito ai protestanti a offrire una medesima accoglienza ai doni della Chiesa cattolica? Non potrebbero lodare Dio specialmente per la capacità della Chiesa cattolica di rendere visibile l’universalità della Chiesa?

Non posso concludere questa riflessione sull’ospitalità senza toccare una questione difficile. Le chiese che sottolineano che l’unità della fede e l’accordo sui ministeri sono necessari per ricevere insieme la comunione non dovrebbero cercare come dare altrettanto peso all’accordo sull’amore fraterno? Non potrebbero allora offrire il più ampiamente possibile l’ospitalità eucaristica a coloro che manifestano il desiderio di unità e che credono nella presenza reale di Cristo? Non dovremmo arrivare a considerare che l’Eucaristia non è solo il vertice dell’unità, ma ne è anche il suo cammino?

L’amore fraterno e l’ospitalità richiedono un grande lavoro interiore. Oggi la nostra comunità raccoglie in una medesima vita comune un centinaio di uomini la cui diversità è sempre più grande: la diversità delle nostre origini confessionali, inizialmente protestanti, più tardi cattolica, e anche la diversità delle nostre culture d’origine, poiché abbiamo fratelli di tutti i continenti. Inoltre, qualche volta ci è data la gioia d’accogliere tra noi per un po’ di tempo un monaco ortodosso. Questa diversità ci pone nella condizione di sapere che la vita fraterna non è sempre evidente. Accogliere l’altro — il fratello o la sorella della stessa comunità come il fratello o la sorella di un’altra confessione — per offrirgli ospitalità nel nostro cuore presuppone una lotta. Per trovare sempre il silenzio interiore, la pace del cuore, si deve dire e ripetere a Dio la preghiera del salmo: «Tieni unito il mio cuore perché ti adori» (Salmi, 85, 11).