Conclusioni del convegno

 

XXIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
MISERICORDIA E PERDONO
Bose, 9-12 settembre 2015
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

Pronunciate da Sabino Chialà a nome del Comitato Scientifico

Sabino Chialà legge le conclusioni del Convegno Misericordia e Perdono
Sabino Chialà legge le conclusioni del Convegno Misericordia e Perdono

Eccoci giunti al termine della ventitreesima edizione del Convegno Ecumenico di Spiritualità Ortodossa che la nostra Comunità organizza in collaborazione con le Chiese Ortodosse. Il tema scelto, “Misericordia e perdono”, ha mostrato, nel corso degli interventi e delle discussioni, tutta la sua ricchezza, e anche la sua attualità, in questo momento storico in cui più che mai sentiamo di avere bisogno di quella riconciliazione cui mirano perdono e misericordia.

Gli eventi tragici che stanno dilaniando e distruggendo tante vite umane, soprattutto nel nostro amato Medio Oriente, ci fanno toccare con mano tutta la fragilità delle nostre buone intenzioni di pace, e quindi ci confermano nella responsabilità che incombe su ogni essere umano e su ogni cristiano in particolare; responsabilità a non venire meno a quel ministero di speranza a noi tutti affidato, che è atto di umanità per ogni uomo e donna di buona volontà, e atto di fede per quanti credono nel Signore della pace. Operare per la pace, tema su cui abbiamo riflettuto nel convegno dell’anno scorso, è possibile solo tramite un’instancabile e sempre rinnovata opera di perdono e misericordia.

Lo abbiamo ascoltato nei numerosi messaggi che vari Capi di Chiese d’Oriente e d’Occidente hanno rivolto ai partecipanti al nostro convegno: il vescovo di Roma, papa Francesco, i patriarchi delle Chiese ortodosse e delle Chiese Ortodosse orientali, il Primate della Comunione Anglicana, e poi il Segretario del Consiglio ecumenico delle Chiese e il Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Nelle loro parole, che abbiamo ascoltato all’inizio delle nostre sessioni, è risuonato l’accorato invito alla responsabilità che incombe su noi tutti a operare per la riconciliazione. Riconciliazione tra i popoli e le culture, e riconciliazione tra le Chiese. Il tempo presente ci sta mostrando come ogni lentezza in tale opera è pagata a caro prezzo da chi continua a morire a causa di divisioni e incomprensioni di cui non possiamo ritenerci estranei. Il Patriarca ecumenico di Costantinopoli ci ha ricordato con forza che

“l’amore per gli uomini è la sola virtù che non ammette dilazione”

e il Patriarca greco-ortodosso di Antiochia, Youhanna, che vive con particolare sofferenza il momento presente, ci ha rivolto parole dolorose ma anche di speranza, ricordandoci che la vita – quella vita che noi tutti ci auguriamo di poter ancora condividere – dipende solo dalla capacità di perdonarci vicendevolmente e da nient’altro. Gli hanno fatto eco anche le parole che il Metropolita Ilarion di Volokolamsk ci ha rivolto a nome del Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Kirill, affermando:

“L’umanità deve riconoscere che le ferite inferte dall’odio e dall’inimicizia possono essere sanate soltanto dalla misericordia e dal perdono reciproco in nome della pace”.

Ma si tratta di un esercizio difficile. La misericordia appare spesso utopia, lontana dalla realtà, dalla nostra realtà quotidiana di uomini e donne. C’è qualcosa in noi che cerca costantemente di convincerci che è così, e che solo degli illusi possono pensare che il perdono e la misericordia siano possibili nel nostro mondo reale, nelle nostre comunità e tra le nostre chiese. Ciò accade perché in ciascuno di noi albergano quelli che il Segretario della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Nunzio Galantino, ha chiamato nel suo messaggio

“gli anticorpi ... che impediscono di provare ‘viscere di misericordia’”.

Sì, ci sono dentro di noi – a vari livelli – degli anticorpi che attaccano e distruggono i germi della misericordia che pure appartengono al nostro essere profondo di esseri umani e di credenti, e che costituiscono ciò che solo è capace di esprimere la nostra umanità vera e la qualità autentica della nostra fede. Tali anticorpi tentano di convincerci che il perdono e la misericordia sono un esercizio sterile, perché contraddicono la realtà, la ragionevole realtà di quel mondo – e di quel male e di quelle divisioni – cui facilmente ci adattiamo e ci abituiamo, fino a non voler più vedere la sofferenza dell’altro, magari mascherando questa cecità deliberata sotto le spoglie del pudore. Una delle manifestazioni più eloquenti di tali anticorpi è quell’esigenza di giustizia che spesso emerge nei nostri pensieri opponendosi alla misericordia e contestandola. Più volte, nel corso del nostro convegno, siamo tornati su questa opposizione tra giustizia e misericordia. Non è la misericordia un atto di irresponsabilità? Non è il perdono un tentativo di cancellare quella storia che invece non è possibile negare?

E’ difficile vivere la misericordia e il perdono... Ma è proprio per questo che nei giorni scorsi siano tornati a interrogare le Scritture e la tradizione patristica, ad ascoltare alcuni testimoni più recenti che hanno mostrato con la vita la loro capacità di misericordia e di perdono, a cogliere, nell’esperienza ecclesiale delle nostre comunità, fallimenti e barlumi di speranza sulla via di quella pratica del perdono di cui tanto avvertiamo il bisogno. Lo abbiamo fatto per ritrovare le tracce di un’esperienza vissuta, per confrontarci con quei percorsi spesso faticosi e mai lineari attraverso i quali chi ci ha preceduti ha comunque cercato di tradurre in pratica ciò che costituisce la più grande e scandalosa eredità che il Signore nostro ci ha lasciato: il comandamento di un amore che non conosce limiti, e di un perdono sempre accolto e offerto.

Una prima direttrice lungo la quale si è mossa la nostra riflessione è stata dunque l’indagine biblica. Nelle Scritture abbiamo cercato di ritrovare i tratti autentici del volto del nostro Dio, osservando che la misericordia è la prima parola con cui egli ha consegnato il suo Nome santo a Mosè: “Dio misericordioso e compassionevole” (Es 34,5-7); una misericordia poi narrata lungo tutta la storia di salvezza, che è storia di liberazione, di lotta da parte di un Dio che non si arrende dinanzi al male delle creature e che cerca in tutti i modi di continuare a usare misericordia, sino a “pentirsi” del male minacciato (espressione scandalosa più volte attribuita a Dio nell’AT); una misericordia cantata nei Salmi, che non si stancano di ripetere che “eterna è la sua misericordia” (cf. Sal 135/136); una misericordia che emerge con forza nell’insegnamento profetico; una misericordia, infine, narrata dal Cristo, che nella parabola del “padre misericordioso” (cf. Lc 15), e prima ancora con la sua stessa vita, ci ha consegnato la memoria di quello sguardo di attesa mai finita e di quell’abbraccio rigenerante con cui Dio ci offre ogni giorno una nuova possibilità di vita.

Abbiamo anche ascoltato che quel Volto misericordioso attende di riflettersi nell’esistenza del figlio perdonato. Innanzitutto come esultanza di chi si riconosce perdonato e ne gioisce, e poi come capacità di perdono che anche il figlio perdonato è chiamato ad accordare al proprio fratello. Il comando di Gesù, più volte ripreso dai relatori di questi giorni: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36), ne è la formulazione più chiara. Tale dinamica di perdono reciproco l’abbiamo osservata nella lettura della storia di Giuseppe e i suoi fratelli, dove il perdono è apparso non come fatto di un momento, ma frutto di elaborazione, tramite il ritorno (teshuvah) e il cambiamento di mente (metanoia). La riconciliazione è un cammino, e ha i suoi tempi; i fratelli separati hanno bisogno di tempo per ridiventare fratelli. Non è una semplice parola o un atto giuridico che li ricostituirà fratelli, ma il tornare a frequentarsi, ad incontrarsi e a guardarsi negli occhi. Questo dovremmo ricordarlo ogni volta che – anche a ragione – lamentiamo lentezza nel nostro cammino ecumenico.

Una seconda direttrice lungo la quale si è mossa la nostra riflessione è stata quella patristica. Ci hanno introdotto le parole di commento con cui i padri hanno cercato di illuminare le parole del Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”; parole con cui ogni giorno ci diciamo pronti a lasciarci coinvolgere in quell’opera di liberazione che il perdono osa realizzare. Silvano dell’Athos, infatti, afferma: “Dove c’è il perdono ... c’è la libertà”. L’uso della misericordia è opera di liberazione: di chi è perdonato, ma anche di chi perdona, che si affranca così dal peso mortifero e paralizzante del rancore. L’espressione “Rimetti a noi nostri debiti come noi li rimettiamo” non intende condizionare il perdono di Dio al nostro, ma sottolineare che quest’ultimo richiede di essere accolto; e il modo per accoglierlo è accordarlo a nostra volta all’altro.

Abbiamo poi ascoltato la testimonianza di alcune figure patristiche, rappresentative della grande tradizione monastica: Pacomio, padre della koinonia, che ha tentato di tradurre nelle strutture stesse di quella forma monastica comunitaria da lui iniziata, gli strumenti della riconciliazione. Quella comunità che è spesso fonte di ferite alla comunione è anche luogo terapeutico per eccellenza, se resta fedele a quelli che per Pacomio sono gli strumenti della riconciliazione: l’obbedienza alla Parola di Dio e la coscienza del proprio peccato seguita dall’accoglienza della misericordia che Dio accorda instancabilmente.

Quindi abbiamo riletto l’esercizio della misericordia nella pratica dell’accompagnamento spirituale dei padri di Gaza. Quella cura che Barsanufio, Giovanni e Doroteo hanno saputo mostrare nei confronti di quanti ricorrevano alla loro parola non era altro che il riflesso della cura che Dio si prende di ogni essere creato. Dio si prende cura, e in ciò rivela il suo volto più autentico; ed è questa cura che tiene in vita il mondo, secondo i padri di Gaza. Ma per essere colta, essa richiede umiltà, condizione necessaria alla pratica della misericordia e del perdono. Solo l’umile potrà fare della misericordia l’orizzonte della propria esistenza, e saprà vivere di una misericordia vera e non illusoria.

Infine, dopo l’Egitto e la Palestina, abbiamo ascoltato una voce proveniente dalla Mesopotamia, Isacco di Ninive, in particolare la sua riflessione sul rapporto tra giustizia e misericordia. La misericordia di Dio, afferma il Ninivita, non può essere bilanciata dalla sua esigenza di giustizia, non perché abbia un peso maggiore di quest’ultima, ma perché la trascende, essendo il suo amore eterno e immutabile. Partendo da tale considerazione, egli prospetta la possibilità di una salvezza universale, che è e resta, nonostante il peccato delle creature, il desiderio più profondo del Dio che Isacco ha imparato a conoscere nella propria esperienza di peccatore sempre perdonato. La croce non è altro che la rivelazione più alta di tale sentimento di Dio. Ogni atto divino, anche il suo giudizio, mira alla guarigione; anche il fuoco della geenna non è espressione di vendetta ma di amore.

La terza direttrice delle nostre riflessioni ha ripercorso la testimonianza di alcune figure che hanno saputo mostrare nella loro stessa esistenza la forza rigenerante del perdono e della misericordia, mostrandosi come altrettanti riflessi del Dio-agape in cui hanno mostrato così di credere non solo a parole ma con la vita: il principe Vladimir di Kiev (di cui ricorre il millennario della morte), che ha saputo mostrare la propria conversione al Cristo mite e umile di cuore tramite un esercizio del proprio potere politico che del Vangelo, recentemente accolto, tentava di farsi espressione; Nil Sorskij, che ha sentito la propria chiamata alla vita monastica come un appello a ricevere misericordia; padre Aleksandr Men’ testimone di una misericordia pagata a caro prezzo, che in una società abbrutita ha saputo rimanere fedele al volto misericordioso del Padre e a testimoniarlo fino al dono della propria vita; Matta el-Maskin che ha saputo vivere e annunciare il perdono e la misericordia come l’espressione più eloquente della vitalità di quell’uomo nuovo che cresce nell’intimo di ogni essere vivente, affermando che il perdono denota la vera forza interiore, l’essere nuova creatura in Cristo.

Infine, un’ultima direttrice lungo la quale ci siamo mossi è stata quella dell’esperienza ecclesiale. La comunità credente dev’essere luogo di esercizio del perdono e della misericordia; ci è stato ricordato che questa è la sua vocazione e che solo allorché essa sa mostrare tale volto è capace di farsi reale luogo in cui il dono dello Spirito è comunicato a ogni essere che le si accosta. Ma sappiamo che non è stato sempre così; e ancora oggi la nostra esperienza ecclesiale contraddice tale vocazione. Ne abbiamo voluto dare un esempio analizzando la memoria della quarta crociata e l’avanzare dell’antilatinismo, ovvero la storia di un perdono difficile, a causa di condizionamenti culturali con i quali il messaggio evangelico del perdono ha dovuto confrontarsi, e laddove motivi sociologico-etinici hanno avuto la meglio sul comandamento del Signore.

Di tale esercizio ecclesiale della misericordia abbiamo analizzato due momenti critici esemplari: il caso delle unioni matrimoniali fallite e quello della divisione tra le chiese. In ambedue i casi siamo dinanzi ad una ferita che richiede, per essere superata, un esercizio di misericordia. Per il primo caso, abbiamo voluto ascoltare la prassi delle Chiese ortodosse e quella della Chiesa cattolica, mettendo in luce la loro diversità, ma anche il loro comune desiderio di tendere una mano a chi dolorosamente si confronta con il fallimento del proprio amore coniugale. Per il secondo caso, il riavvicinamento tra le chiese, abbiamo ripercorso i primi passi di quella storia di ritrovata fraternità tra Chiesa di Roma e Chiesa di Costantinopoli, narrato nel “Tomos agapis”. In quelle pagine, che ancora oggi leggiamo con vibrante emozione, sono raccolte, tra altre, le parole di due grandi profeti e uomini di pace quali il Patriarca Athenagoras e il Papa Paolo VI che, dopo secoli di incomprensione ed estraniamento, hanno iniziato a scrivere una nuova pagina della nostra storia, in cui Roma e Costantinopoli tornavano nuovamente a chiamarsi “Chiese sorelle”.

E il cammino non è ancora terminato… Nonostante quei passi coraggiosi, le nostre chiese restano divise, il calice non è ancora condiviso, ci portiamo dietro ferite non ancora sanate. Sulle ragioni di tale lentezza si sono interrogati i partecipanti alla tavola rotonda, che hanno tentato di rispondere a due domande: innanzitutto com’è possibile convertirsi come chiesa? E poi: Cosa fare della memoria storica? Se non è possibile dimenticare, in che modo elaborare il passato?

Alla prima domanda è stato risposto che ciò richiede una purificazione collettiva; il riconoscimento del peccato che le chiese hanno commesso comunitariamente, e che ancora commettono nel presente. Per questo è necessario esercitarsi a discernere il sentire dell’altro, dell’altra chiesa: cosa ferisce l’altra chiesa, cosa la fa soffrire, e nello stesso tempo a saperne apprezzarne i doni. Di questo sono stati rilevati segni positivi, ad esempio nella proclamazione di S. Gregorio di Narek, appartenente ad una Chiesa pre-calcedonese, a dottore della Chiesa cattolica. Ma un semplice ritorno al passato – è stato detto – non è la via. Vi è un futuro da cogliere, vi è un’opera profetica da compiere. La salvezza offertaci dal Signore, infatti, non consiste in una semplice restaurazione del passato, ma è nuova creazione, perché è partecipazione alle energie del Risorto.

A partire da tali considerazioni, si è articolata la risposta alla seconda domanda posta. Certo ricordare è importante e dimenticare sarebbe un atto di irresponsabilità, ma allo stesso tempo è necessario non lasciarsi imprigionare dalla storia. Guardare al passato è necessario in vista di quell’opera di purificazione cui siamo chiamati, ma nello stesso tempo abbiamo bisogno di trovare un modo nuovo di dialogare; abbiamo bisogno di parole nuove, di slancio profetico; siamo chiamati a prendere sul serio quell’anelito all’unità che sale da tanti uomini e donne appartenenti alle differenti comunità cristiane. Dimenticare non ha senso; senza memoria non esiste futuro; è anche necessario tenere conto dei problemi teologici che ancora paiono dividerci, ma non possiamo per questo ignorare che i popoli prendono sempre più coscienza di fare parte di una medesima realtà umana e planetaria, e che attendono da noi una parola profetica, una parola di pace e di riconciliazione; da noi che abbiamo assistito e ancora assistiamo, inerti e afoni, alle tragedie che si consumano intorno a noi, dove – non dimentichiamolo – ci sono cristiani uccisi da non cristiani, ma anche cristiani uccisi da altri cristiani. C’è chi ha ricordato – concludendo la tavola rotonda – che le chiese sono chiamate ad educare i loro fedeli al rispetto dell’altro, alla pace, alla riconciliazione. Quello che è accaduto e che continua ad accadere intorno a noi mostra quanto manchevoli siamo stati in questo ministero di educazione all’interno delle nostre chiese.

Misericordia e perdono – dicevo all’inizio – suscitano in noi una reazione di inadeguatezza e anche di disagio. Ma alla fine di questo itinerario compendiamo che il disagio è duplice. In primo luogo facciamo fatica a concepire un Dio misericordioso, un Dio per il quale, come dice Isacco il Siro: “Un peccato non vale quanto un peccatore” (III,6,24), perché l’essere umano ai suoi occhi resta sempre più grande e più prezioso del male di cui è capace. Si tratta di un Dio che ci crea disagio perché noi lo vorremmo un po’ più a nostra immagine: uno Dio troppo misericordioso, infondo, rischia di condurci per vie che non vorremmo percorrere, e dunque registriamo lungo la storia ripetuti tentativi di arginare, di precisare, di innalzare una siepe intorno all’azione misericordiosa di Dio, come intorno a quei testi che pure ce ne parlano in modo così chiaro. La misericordia di Dio ci mette a disagio forse anche perché ci sentiamo giusti. E dunque la nostra reazione dinanzi alla misericordia infinita di Dio può aiutarci a misurare il nostro cuore. Se testi come la parabola degli operai dell’undicesima ora o quella del padre misericordioso ci scandalizzano è perché ci sentiamo ancora troppo giusti; se invece ci consolano, è perché cominciamo a vedere il nostro peccato.

Il secondo disagio che le nostre riflessioni intorno alla misericordia e al perdono hanno forse fatto sorgere in noi è originato dal constatare la nostra inadeguatezza a vivere in una dinamica di misericordia e di perdono. Non solo è difficile concepire un Dio misericordioso, ma anche intravedere la possibilità di un essere umano misericordioso. In un percorso che si è avvalso anche delle moderne acquisizioni della psicologia abbiamo cercato di comprendere il perché di tale difficoltà e dunque si è tentato di individuare quale essere umano è capace di un reale perdono.

Alla radice della nostra incapacità a lasciarci perdonare e a perdonare vi è quello che i Padri definiscono “madre di tutti i mali”, la filautia. Per vivere la misericordia – per riceverla e per offrirla – è necessario quel decentramento da sé che contraddice radicalmente ogni atteggiamento autoreferenziale. E non vi è solo una filautia personale, che impedisce ad un essere umano di vivere la misericordia verso il proprio prossimo; ve n’è anche una sociale, che cioè paralizza collettività intere, annebbiando i loro occhi perché non vedano il bisogno dell’altro; e ve n’è una ecclesiale, che rende incapaci noi uomini e donne di chiesa a esercitare la misericordia all’interno delle nostre comunità cosiddette “credenti” e tra le nostre chiese, ormai abituate alle loro divisioni, di cui spesso non avvertono più lo scandalo.

In conclusione, vorrei allora riprendere quello che a molti è parso un apoftegma dei tempi moderni, pronunciato da uno dei nostri relatori alla fine di una discussione in cui ci si interrogava sulla realtà della divisione tra i cristiani, sulle sue ragioni, su ciò che impedisce ancora la piena comunione. Sollecitato appunto su questo tema, egli diceva:

“Non so cos’è la divisione ma so cos’è l’unità”.

Probabilmente non riusciremo mai a districare sino infondo, neppure scandagliando ogni angolo del nostro passato ferito, le ragioni delle nostre divisioni, ma conosciamo qual è la volontà di unità del Signore nostro e anche il nostro intimo desiderio; e in questi giorni abbiamo anche ricompreso che per procedere in questa direzione non vi è che una via: un sempre rinnovato esercizio di misericordia e di perdono reciproco.