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Desiderio infinito

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“Non vedo un fico secco!”.

“Ah! Quello era il mio piede…”.

“Sss… ci sentiranno!”.

“Ma voi come siete arrivati fin qui?”.

Bella domanda! Nessuno sa come siamo riusciti, in una notte di agosto dell’anno 662, a intrufolarci in questa fortezza sulle alture del Caucaso, dove l’impero cristiano ha rinchiuso il suo peggior nemico. Un palestrato Vercingetorige? No. Un fascio di luna dilata la stretta feritoia e strappa all’oscurità i tratti scavati di un’ottantenne avvolto nell’abito nero dei monaci: Massimo, il Confessore.

“Va bene, lasciamo perdere, tanto ormai siete qui – riprende Anastasio, il suo fedele discepolo – ma diteci almeno che cosa vi porta”.

“Ho una domanda per l’anziano – avanza un giovane e, lasciando che la notte nasconda il suo imbarazzo, continua – davvero Dio mi condanna per essermi masturbato o per aver fatto l’amore con una donna?”.

Il vecchio non si scompone e articola senza emettere suono: “Giurista!”.

Anastasio sorride amaramente: “Lui sa bene che talvolta la chiesa è ben più incline di Dio a concedere condanne e anatemi: gli hanno appena tagliato lingua e mano destra per impedirgli di continuare a parlare di un Gesù che ritengono troppo umano. Ma non si tratta di questo…”.

L’anziano si solleva stanco e il suo indice sinistro traccia tremule lettere greche sul muro di pietra: “Il peccato è fallimento, scagliare vano e mancante invece di centrare il bersaglio”.

“Appunto – commenta il discepolo – riconosciamo che un’azione è peccato non per la condanna che la sanziona, ma se ci porta a mancare l’obiettivo. Il peccato ti illude, e poi ti delude. Percepisce la tua tensione, la tua sete di comunione e ti dice: qui, lancia qui; tu concentri tutte le tue energie, tendi l’arco, tiri e puf, tutto si dissolve come una bolla di sapone e tu resti senza forze, solo, con il tuo senso di colpa”.

“È un autogoal!”.

“Non so cosa significhi, ma credo che tu abbia intuito”.

“I tre antichi e più grandi mali sono l’ignoranza, l’amore di sé, la prepotenza – riprende a scrivere il dito del Confessore – e questi mali si rafforzano con l’uso disordinato delle nostre facoltà: la ragione, i desideri, i sentimenti”.

“Ogni volta che pensieri, desideri e sentimenti rispondono a un amore egoistico, che si autocompiace, che domina sull’altro come fosse un oggetto e che ignora il mistero prezioso e inviolabile che il Creatore ha inscritto in ogni suo figlio e figlia, facciamo autogoal perché frantumiamo l’unico corpo dell’umanità in tante singolarità contrapposte l’una all’altra. Ecco il peccato”.

“Il mio desiderio però rimane, è reale. Devo castrarmi? Come risponde Dio al mio voler costruire una relazione?”.

“Dio è amore e dona a chi glielo chiede la capacità di amare” – scandiscono le labbra terribilmente vuote di abba Massimo.

“No, Dio non ti castra, non ti chiede di inibire i tuoi pensieri, desideri, sentimenti, ma di educarli perché non siano più al servizio di quel grande attore che è l’amore egoistico ma del vero amore”.

“E come riconosco il vero amore?”.

“L’amore egoistico è fusionale, non si dà pace finché non si mangia l’oggetto del suo desiderio. L’amore vero invece, mi ha detto una volta abba Massimo, unisce ciò che è diviso, ma preserva quella lodevole disuguaglianza per la quale ciascuno attrae a sé il prossimo preferendolo a sé stesso. Non lo cattura cioè per dominarlo, ma lo attrae per servirlo.

L’amore egoistico inoltre non sopporta la temperanza: vuole tutto e subito, perché non resiste alla misura né alla prova del tempo. Ha scritto una volta l’anziano: 'La dimenticanza logora ogni desiderio che si fonda soltanto sui corpi: se gli si chiede di attendere si spegne; oppure la sazietà sopraggiunge e oscura il sentimento di prima: se gli si chiede di durare si cambia in disgusto, allora il minimo pretesto trasforma in odio un tale amore'”.

“L’amore egoistico è effimero – verga nell’aria il dito di Massimo – perché è proprio di un uomo che non ha consistenza, mentre insieme a coloro che sono fermi e stabili fermo rimane anche il reciproco amore, che nulla spezza e scuote. Esso tende all’infinito il vicendevole desiderio”.

Il vecchio si accascia sfinito e con lo sguardo alla feritoia lancia il suo desidero al di là delle stelle.


Le parole di Massimo il confessore sono tratte dalla sua Lettera 2, sulla carità (Qiqajon, 1994), dalla Lettera 27 e dalle Centurie sulla carità 3,8.