Warning: getimagesize(images/newsletter/qiqajon/20_cura_parole/21_06_17_deserto.jpg): failed to open stream: No such file or directory in /home/monast59/public_html/plugins/content/multithumb/multithumb.php on line 1563

Warning: getimagesize(images/newsletter/qiqajon/20_cura_parole/21_06_17_deserto.jpg): failed to open stream: No such file or directory in /home/monast59/public_html/plugins/content/multithumb/multithumb.php on line 1563

Il senso di una presenza monastica cristiana nella “casa dell’islam”

Multithumb found errors on this page:

There was a problem loading image 'images/newsletter/qiqajon/20_cura_parole/21_06_17_deserto.jpg'
There was a problem loading image 'images/newsletter/qiqajon/20_cura_parole/21_06_17_deserto.jpg'
Photo by Amine Rock Hoovr on Unsplash
Photo by Amine Rock Hoovr on Unsplash

In occasione del 25° anniversario della morte dei sette monaci trappisti di Tibhirine, in Algeria (21 maggio 1996), riproponiamo un testo di Frère Christian de Cherghé, il priore della piccola comunità monastica, che spiega il senso della loro scelta di abitare e di continuare a vivere fino alla fine, come comunità monastica cristiana, in un paese musulmano*. Come è noto, i sette monaci trappisti, insieme al vescovo Pierre Claverie e altri undici martiri di Algeria, sono stati recentemente dichiarati beati nella cattedrale di Orano in Algeria (8 dicembre 2018) e la loro memoria liturgica è stata fissata all’8 maggio.


Mi sembra che vivere nella “casa dell’islam” significhi sentire concretamente la difficoltà, e quindi la maggior urgenza, di quelle novità dell’evangelo che la chiesa ha tratto dal suo tesoro solo recentemente, diciamo con la svolta del Vaticano II: nonviolenza concreta, urgenza della giustizia sociale, libertà religiosa, rifiuto del proselitismo, spiritualità del dialogo, rispetto della differenza, senza dimenticare la solidarietà con i più poveri, sempre da reinventare.

Nel contempo ci si rende perfettamente conto che sarebbe contrario all’evangelo voler compiere questi nuovi passi verso l’altro solo a condizione che lui stesso faccia altrettanto. A volte si sente dire: “Tocca sempre a noi fare il primo passo. Adesso, basta! Si muova lui!”. Come se non fossimo debitori, in primo luogo, verso la straordinaria iniziativa presa da colui che “ci ha amati fino alla fine” (Gv 13,1). Dobbiamo sottrarci a qualsiasi costo a questa legge del taglione del do ut des che ci abita ancora in mille modi. Andare verso l’altro e andare verso Dio è una cosa sola: non posso farne a meno, e richiede la stessa gratuità. Poiché ci si profila un unico orizzonte, diventa vitale imparare a camminare insieme in nome di ciò che di migliore si ha in sé. Un versetto del Corano afferma: “Presto mostreremo loro i nostri segni, sugli orizzonti del mondo e in loro stessi” (41,53). I nostri fratelli `Alawiyîn di Médéa hanno citato e commentato questo versetto fin dal loro primo incontro con il Ribâtialla festa di Ognissanti del 1980. Sembrava loro che desse fondamento all’iniziativa, assunta alcuni mesi prima, di venire a pregare con la nostra comunità dell’Atlas. Fin dall’inizio ci avevano allora dichiarato:

Non vogliamo impegnarci con voi in una discussione dogmatica. Nel dogma o nella teologia ci sono molte barriere che sono questioni umane. Noi invece ci sentiamo chiamati all’unità. Vorremmo lasciare che Dio crei tra noi qualcosa di nuovo. Questo può avvenire solo nella preghiera. È questo il motivo per cui abbiamo voluto questo incontro di preghiera con voi.

Sì, possiamo aspettarci qualcosa di nuovo ogni volta che ci sforziamo di decifrare i “segni” di Dio “all’orizzonte dei mondi e dei cuori, mettendoci semplicemente all’ascolto, e anche alla scuola dell’altro, musulmano in questo caso. È proprio questo l’obiettivo del nostro Ribât che, fin dagli inizi – ormai dieci anni or sono (marzo 1979) – si era riconosciuto nell'intuizione di Max Thurian, così vicina a quella dei nostri amici di Médéa:

È necessario che la chiesa assicuri a fianco dell’islam una presenza fraterna di uomini e di donne che condividano il più possibile la vita dei musulmani, nel silenzio, nella preghiera e nell'amicizia. Così si preparerà a poco a poco quello che Dio vuole nelle relazioni tra chiesa e islam*.

E Gesù Cristo? Egli è appunto il grande sacramento di questo “terzo mondo” della speranza, l’iniziatore della fede nell’uomo e il suo compimento in Dio, sia oltre che dentro di noi, nascosto agli occhi del mondo dalla nube del mistero divino e nel contempo dal velo dell'incarnazione continuata. Gesù stesso ci ha avvisato: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre ...” (Mt 11,27). Teilhard commentava questo a modo suo: “Credo che la chiesa sia ancora un bambino. Il Cristo di cui vive à smisuratamente più grande di quanto lei se lo immagini”. Non ci capita forse di dimenticarlo, e di credere che essere cristiano significhi conoscere tutto di Cristo? “Dio è più grande, Allâhu Âkbar!”. Cristo è più grande, inconcepibilmente più grande. Proclamarlo in una fede nuda è la miglior testimonianza (šahâdâ) resa alla sua divinità.

Così, per arricchire la nostra presente conoscenza parziale, abbiamo bisogno di ciò che l’altro può aggiungervi con ciò che è, ciò che fa e ciò che crede. È quanto i nostri vescovi del Nord Africa hanno espresso in un documento del 1979 intitolato Il senso dei nostri incontri:

Rivolti verso l’avvenire, attendiamo gli ampliamenti prodigiosi del nostro sguardo sull'uomo e su Gesù che nasceranno dall’interagire tra le culture cristiane attuali e le questioni poste dagli uomini delle altre tradizioni dell’umanità*.


* Testo tratto da Più forti dell’odio, a cura di G. Dotti, Qiqajon, Magnano 2010, pp. 61-63.

* Gruppo di incontro interreligioso [N. d. T.]

* M. Thurian, Tradizione e rinnovamento nello Spirito, Roma 1979, p. 16.

* “Chrétiens au Maghreb. Le sens de nos rencontres”, in Documentation Catholique 1775 (1979), pp. 1032-1044.