La comunità tra apertura e chiusura

Quando pensiamo al significato concreto della parola “comunità”, affiora nella nostra mente una forma particolare, che sia connotata come comunità familiare, religiosa, civile, scientifica, terapeutica e così via, essa risulta sin troppo definita e circoscritta, a dispetto dell’indole comprensiva e universalizzante del termine stesso. Il paradosso che l’accompagna scaturisce dall’antinomia per cui nella semantica di ciò che è comune coesistono apertura e pluralità, da un alto, e appartenenza esclusiva, dall’altro. Se la vita comune dà nella comunità e se però questa è un luogo, è chiaro che ci saranno alcuni che le sono interni e altri che restano puramente esterni. Lo schema dentro-fuori sembra costitutivo della possibilità stessa che si dia una comunità. Ma proprio in questo schema ricorre ostinato il pericolo più grande per la fisiologia della vita comunitaria. Infatti, non appena una data comunità cerca di far valere un suo progetto di identità e di unità per i molti, o addirittura per tutti, come se la sua particolarità potesse già incarnare e garantire l’universalità, allora essa diviene immediatamente oppressiva, totalitaria, integrista, invasiva, imperialista. Il presupposto cognitivo di questa degenerazione risiede, per un verso, nell’affidare l’identificazione della comunità ai parametri definibili tramite lo schema dentro-fuori e, per altro verso, nel credere a una derivazione o a una elezione esclusiva della comunità stessa da parte di un’origine: Dio, la patria, la razza e così via.


In tal modo un determinato gruppo di individui ... finisce per muoversi solo entro le due possibilità consentite da quello schema: escludere, definendosi per contrapposizione e per appropriazione di qualcosa che è negato ad altri; o includere, pretendendo dagli altri stessi omologazione, adattamento e conversione all’identità del gruppo. quando si determina un fenomeno del genere prende corpo un errore paragonabile a quello che riduce l’esistenza individuale al mero “istinto” di sopravvivenza. Su un altro piano, anche la comunità tenderebbe all’autoaffermazione come unica ragione di vita. Invece, non è men vero per la comunità di quanto lo sia per i singoli che il dinamismo essenziale della nostra inquietudine sta nella ricerca di una vita che sia più della vita. In ciò la comunità dilata e trasfigura la stessa ricerca del singolo. Quella umana è una vita di confine, cosicché il qui e ora in cui ogni volta è di fatto implicato il nostro intero essere è essenziale non come dimensione ultima, ma in quanto ricapitolazione e anticipazione di un viaggio in corso ... Le comunità cui possiamo partecipare, comunque connotate, non sono la meta ultima, la; destinazione e la verità della condizione umana. Sono intanto e tendenzialmente quella realtà di comunione in cui impariamo a condividere la vita, ad amare, a diventare noi stessi, a continuare il viaggio (Roberto Mancini, {link_prodotto:id=364}, Qiqajon, Bose 2004, pp. 9-11).