Il rischio di una relazione

Per prima cosa a mio parere bisognerebbe rendersi conto, scoprire in sé e sviluppare nella propria vita un dato di fatto: l’uomo si affida necessariamente ad altri ed è necessariamente portato a farlo. Tale autoapertura della persona a un altro, tale affidamento di sé a un altro può assumere gradi di intensità e forme quanto mai varie. Forse la forma più eloquente è quella dell’amore coniugale. In esso un individuo si affida incondizionatamente (almeno in un certo grado) a un altro. soltanto chi si distacca da sé e si abbandona con amore a un altro trova se stesso. altrimenti soffoca nel carcere dell’egoismo. Riflettiamo ora in maniera un po’ esplicita su questo fenomeno fondamentale dell’esistenza umana. Per affidarsi in maniera sensata e responsabile a un altro bisogna ovviamente che ci siano dei motivi che ci spingono a farlo e che ci paiono legittimi; essi sono però sempre e necessariamente di minor peso e più problematici dell’atto stesso dell’affidamento nella sua assolutezza. Viceversa, l’atto dell’affidamento di sé possiede una radicalità, assolutezza e incondizionatezza, che non possono essere completamente dedotte dai motivi precedenti. Le cose stanno così, e l’uomo è in grado di vedere che nella sua esistenza umana non possono stare diversamente. Bisogna avere dei motivi ragionevoli per affidarsi a un altro individuo, per mettersi nelle sue mani. Ma così affidandosi, il rischio è maggiore – malgrado le precedenti riflessioni, verifiche, esigenze di ragionevolezza e legittimazione – e bisogna rischiare più di quanto tali motivi sembrino legittimare. Ogni rapporto fatto di fiducia e di amore verso un altro uomo racchiude una dose di decisione e di rischio, che supera quanto la riflessione sulla legittimità e ragionevolezza di tale rischio ammette e approva. Così, possiamo fare dell’esegesi e della teologia biblica, intraprendere mille ricerche sulla figura storica di Gesù, cercare di mettere in luce con esattezza ciò che egli ha detto, come l’ha detto, quale senso gli ha attribuito, che cosa gli è successo, come l’ambiente ha reagito nei suoi riguardi, quale idea egli ha avuto di sé. Possiamo studiare con precisione i cosiddetti suoi miracoli.


Possiamo tentare di analizzare con maggiore precisione sotto il profilo psicologico per quale motivo e come mai i suoi primi discepoli dopo la sua morte sono arrivati a convincersi che egli è risorto. Tutte queste riflessioni e ricerche sono buone e necessarie, naturalmente in corrispondenza alle possibilità conoscitive e di verifica di ogni singolo individuo e in corrispondenza ai mille modi diversi, in cui si procede a una simile legittimazione di una convinzione umana. Ma il rapporto veramente cristiano verso Gesù racchiude sempre un qualcosa di più in fatto di libertà, di rischio, di amore appunto, che va al di là di tutte queste scienze storiche, esegetiche e critiche, che va naturalmente anche al di là della testimonianza storica della tradizione e della chiesa su Gesù. Solo dopo aver accettato e amato Gesù stesso in quanto tale al di là di quel che sappiamo di lui – lui stesso e non la semplice nostra idea di Cristo e neppure i semplici risultati della nostra scienza storica – ha inizio il nostro rapporto verso di lui, il rapporto consistente in un abbandono assoluto di se stessi nelle sue mani (K. Rahner, Che cosa significa amare Gesù?, Edizioni paoline, Roma 1983, pp. 13-16).