L’alterità

La Bibbia è un libro di storie in cui accade di tutto. È in particolare un libro di chiamate e di incontri. Ci si incontra dappertutto, nelle strade, presso i pozzi, ci si accompagna lungo il cammino. si frequentano passanti che sono anche messaggeri. Si ricevono rivelazioni. Nella Bibbia il Signore appare già ad Abramo in vesti straniere. Alle querce di Mamre (Genesi 18). L’incontro diventa sempre un’occasione. Gesù incontra la samaritana al pozzo: le chiede da bere, le racconta la storia della sua vita. E la vita di quella donna cambia. Cambia a aprtire da un incontro (Giovanni 4,29). Anche qui un transito, un’occasione, una rivelazione. Per via ci si incontra. Ci si conosce. Magari si diventa amici. In molti casi, però, ci si ignora e l’occasione sfuma. L’ignoranza spesso si muta in pregiudizio: di qui inimicizie ingiustificate e perciò stesso evitabili, di qui violenze gratuite. Ma la radice dell’incomprensione e della resistenza risiede, come si sa, nell’idea di possedere la verità, di averne il monopolio. Da questo punto di vista tutto ciò che sta fuori non è semplicemente il diverso, ma è il falso e il meno buono. Di questo è) stato responsabile lo stesso cristianesimo. Lo dice bene Enzo Bianchi: “Dopo sedici secoli durante i quali il regime della cristianità ha fatto sì che l’uomo occidentale concepisse il diverso attraverso categorie peggiorative –l’eretico, l’immorale, l’indemoniato – o comunque emarginanti – il monstrum da osservare dall’esterno per la sua straordinarietà -, non deve stupirci se oggi l’irrompere o l’affacciarsi di culture diverse ci trova impreparati, privi di strumenti di comprensione e di dialogo”.


Tutti hanno più o meno creduto di avere una patria, di riposarsi su un sicuro fondamento. Il moderno nel suo svolgersi ha mostrato quanto tutto ciò sia provvisorio. Viviamo in un mondo caratterizzato da un’estrema mobilità. In questo senso siamo divenuti l’un l’altro stranieri. Non per questo dobbiamo rimanere estranei. Al contrario, l’incontro rivela quello che ci accomuna, non foss’altro che la semplice volontà di capirci, il piacere dello stare insieme. Senza voracità. Nell’incontro l’altro deve essere lasciato essere: non può essere divorato. Ma aprirsi all’altro non significa spogliarsi della propria identità. Se cancelliamo quel che siamo non possiamo reciprocamente riconoscerci. Chi riconoscerebbe chi? Lo stesso si deve dire dell’incontro tra il credente e il non credente. Il vero credente non impone una verità, ma con il suo agire indica una strada. E dal non credente impara: comprende che si può vivere bene senza Dio. Ma lo comprende come lo può paradossalmente comprendere uno che crede. È lo stesso Dio che concede la possibilità di non credere. “L’uomo non è solo capax Dei, capace di Dio, ma è anche ‘capace’ di dire no e di vivere senza di lui. Anche questo canta la grandezza di Dio che ha creato un uomo, una creatura, senza imporsi a essa e senza costringerla a riconoscerle colui che l’ha voluta e plasmata” (Enzo Bianchi). Certo, il non credente non si pensa così – né mai lo potrebbe. Il credente tuttavia può ravvisare anche in chi non crede un gesto, una via inattesa e segreta della grazia. La fede è dono e insieme enigma (Esodo 17,7).


D’altra parte, nella Bibbia il pericolo vero non viene da chi non crede, ma da chi sostituisce Dio con i suoi simulacri. Spesso quello che a prima vista può sembrare altamente cristiano non lo è, anche se di per sé è utile e buono. Il cristiano deve sapere ascoltare la voce dell’altro. Quel che allora è da fare è camminare insieme, saper mutare il transito in dimora. È questo il senso profondo e nascosto del racconto di Emmaus. Due discepoli sono in cammino. Gesù si accosta loro ed essi non lo riconoscono. Parlano di lui senza saperlo. Arrivati al villaggio, Gesù si congeda da loro come uno che deve andare più lontano. Essi insistono perché si fermi. È sera. Quando si siedono a tavola Gesù spezza il pane. Ma cosa questo può significare davvero? Per un non credente quel che accade a Emmaus non è il rivelarsi di Gesù come Dio o di Dio in Gesù ma è il reciproco incontrarsi degli uomini nella scoperta della loro comune fragilità. Nella fractio panis, nella “condivisione”, gli uomini reciprocamente si affidano. Siamo stranieri sulla terra. Non è importante la meta, ma lo stare per via. Bisogna saper camminare insieme. Bisogna anche saper sostare: rendersi gli uno sostegno degli altri. Per tutti, infatti, cala la sera (S. Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 14-16).