Ognuno è ospite dell’umano che è in noi

La pietà-virtù è quella sensibilità virtuosa che ci dispone a vegliare con delicata assiduità sull’umano che nell’altro è compromesso sempre e comunque anche per noi. La virtù che ci incoraggia dunque ad alimentare una sostanziale compassione per l’uso maldestro che siamo “costretti” a fare dell’umano. E per la censurabile debolezza con cui l’abbandoniamo alla sua “sorte”. La pietà-virtù è la coltivata sensibilità della tenacia con la quale ci lasciamo coraggiosamente commuovere dagli abusi dell’umano. Ben sapendo che ciò avviene “fuori della legge” come anche “dentro la legge”, nei luoghi dell’emarginazione come nelle istituzioni della tutela; nelle piazze della libertà democratica come nei recinti della consacrazione religiosa. La pietà-virtù raggiunge la propria dignità proprio quando è capace di abbandonare la sterile emozione dello sdegno che ci gratifica e dell’orrore che ci commuove; per diventare rinnovata energia dell’attaccamento all’umano ferito dell’altro. La pietà-virtù sa bene che ognuno è ospite, non padrone, dell’umano che è in noi. Sicché la pietà-virtù non ha niente a che fare con l’ipocrisia dei buoni sentimenti e con la vigliaccheria dei sensi di colpa. La pietà-virtù convive tranquillamente con la precisa denuncia delle responsabilità: non trasforma a priori i carnefici in prodotti difettosi della società, né ha bisogno di trasformare il male in malattia affinché la comparsone per l’umano ferito sia legittimata. La pietà-virtù è addestrata a resistere anche alla mancanza d’amore. E custodisce, unica, le energie necessarie al riscatto del legame dell’umano. Non ha ancora incominciato a essere ero uomo chi non ha vissuto la pietà per l’umanità ferita e svilita dell’altro. Di qui, da questo inafferrabile “punto x” dell’umano non naturale e non civile dell’uomo, ogni buona relazione incomincia. E ogni relazione può ricominciare. E diffonde nell’intero corpo sociale una sottile e salutare ironia nei confronti di chiunque non abbia ancora realizzato che l’umano mortificato nell’altro comincia a essere riscattato anche per noi solo quando ci appare comunque e sempre come una vergogna nostra, invece che della natura, dell’inconscio, della sorte, del capitale o degli dèi. E anche se noi non abbiamo fatto niente (appunto) (P. Sequeri, L’umano alla prova, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 158-159).