Ripercorrere la nostra vita

Quando ci prepariamo a una confessione regolare, sia essa collettiva o individuale, dobbiamo sforzarci di ripercorrere la nostra vita; non basta dare indietro una rapida occhiata compilando la lista delle azioni indegne o cattive da noi compiute, ma bisogna esaminare più in profondità come tutto questo abbia potuto verificarsi.
Non basta pentirsi dei peccati che continuamente commettiamo; non basta porre una questione di ordine meramente morale: mi comporto bene o mi comporto male? Il problema è sapere che tipo di uomo io sono. Mi definisco un essere umano, sono così fiero di essere russo, cristiano ortodosso, di essere figlio o figlia, marito o moglie, fidanzato o fidanzata, padre o madre, di essere amico, compagno o collega di lavoro: ma in fin dei conti, chi sono? In quale parte di me stesso c'è la mia autenticità, e qual è la parte di facciata? Fino a che punto io mi sforzo di sembrare invece di essere, molto semplicemente?
Quando, dopo un esame di coscienza approfondito, e dopo aver meditato a lungo sull'evangelo e sulle vie del Signore, ci troviamo di fronte al nostro peccato, all'infedeltà alla nostra vocazione più grande, un dolore acuto, un senso di vergogna giungono immancabilmente a trafiggerci il cuore.


Ci vergogniamo profondamente di sentirci così lontani da quello che potremmo essere, così diversi dal progetto che Dio aveva su di noi nel momento in cui ci ha creato. Questo sentimento non dovrebbe essere che uno stimolo a cambiare il nostro modo di vivere. Noi dobbiamo soffermarci sul passato, esplorare implacabilmente le zone oscure della nostra vita, i pensieri e i moti del nostro cuore, così come i nostri desideri, i modi di agire e le relazioni che abbiamo con gli altri. Lo sguardo con cui ci esaminiamo deve essere severo e lucido, come quello del medico che esamina un malato, o quello con cui guardiamo davanti a noi quando camminiamo di notte su una strada, per non perderci e non cadere. Tutto quello che è accessibile allo sguardo deve essere rivelato, e deve essere detto
in tutta lealtà; bere il calice della vergogna fino alla feccia, accogliere il dolore fino al punto estremo, non cercare delle scuse per renderlo meno cocente, senza lasciarsi però abbattere dalla vergogna. Solo sopportando la nostra indegnità con tutta la forza di cui siamo capaci, potremo sottrarci a ciò che la vergogna risveglia in noi.


Se cerchiamo di attenuare parzialmente, per quanto poco, l'immagine della nostra condizione di peccatori, di rendere più amabile la nostra indegnità - se non altro ripetendo quello che diciamo di noi stessi: "Sono peccatore, come tutti", oppure: "Che altro potevo fare?" -, se cerchiamo di soffocare in noi stessi tale dolore, allora non è più possibile per noi il pentimento. Infatti è solo prendendo coscienza dell'orrore, della forza mortifera del peccato, della vergogna di non essere degni di noi stessi - per non parlare degli altri o di Dio -, che possiamo trovare la forza di sottrarci a quella schiavitù. Senza tutto questo sopportiamo molto bene la nostra condizione e non si può fare nulla che ci liberi dalle nostre catene.
Ecco la differenza che passa tra noi e i santi, dagli apostoli fino ai grandi protagonisti della fede del nostro tempo. Sappiamo come hanno vissuto. Si sono imposti di bere fino alla feccia il calice della vergogna di sé e hanno permesso che il loro cuore, la loro coscienza, la loro persona, fossero interamente trafitti dal dolore provocato dall'immagine che davano di se stessi.

A. Bloom, Ritornare a Dio, Qiqajon, Bose 2002