Vedere quell’unica ferita

Cappella di san Martino nella chiesa Inferiore della Basilica di san Francesco ad Assisi
SIMONE MARTINI, San Martino di Tours cede il mantello

Sembra che il legame della carità, la congiunzione fra uno sguardo e la verità di un dolore, consista proprio nell’arrestarsi, nel voltare la testa. Simone Martini ha dipinto con grande esattezza questo momento di conversione in uno degli affreschi che decorano la cappella di san Martino nella chiesa Inferiore della Basilica di san Francesco ad Assisi. È l’episodio più proverbiale della vita del santo; una gelida mattina d’inverno, il povero, che non ha di che coprirsi, la spada sguainata che divide a metà il caldo mantello di Martino. Nell’affresco di Simone, il santo è già uscito, in groppa al cavallo, dalla porta della città, incamminandosi per una terra desolata, senza nemmeno un arbusto, sotto un cielo livido. Tutto, in questo paesaggio essenziale e pietrificato, fa pensare alla tramontana. Tempo da ladri. Deve essere ben importante il motivo del viaggio se è capace di spingere un uomo in una tale desolazione. Vicino alla porta c’è un uomo scalzo e tremante, a malapena rivestito da una stoffa misera e lacera, di un’umiliante esiguità. Un lungo strappo sul fianco lo fa ancora più nudo. Nel suo sguardo è agevole leggere il ricordo fresco di una notte tremenda: fame, membra progressivamente intorpidite dal gelo, la vergogna che è sempre compagna della povertà di fronte allo sguardo astioso e imbarazzato di una città superba e ben munita. Quell’uomo, è facile immaginare, non si è mai mosso, da lungo tempo, dalla porta della città, luogo d’elezione di tutti i miserabili della terra.


San Martino deve averlo già incrociato con lo sguardo, con la mente rivolta altrove, in quel vedere senza vedere che è la difesa naturale di ogni uomo che cammini sulle vie della terra sopra un buon cavallo, vestendo panni caldi, lo stomaco libero dalla stretta micidiale della fame. Ma ecco che il cavallo si arresta, i piedi premono sulle staffe, il viaggio si interrompe. Fate la carità, dicevano una volta i bisognosi, quando i bisognosi possedevano almeno la stessa lingua dei fortunati. Bellissimo invito, che adeguava, senza abbassarla, l’essenza luminosa della carità alla sfera d’azione del lavoro umano, di ciò che possibile fare, come si fanno le scarpe e il vino, le mura delle case e le canzoni d’amore. Alla base di quel lavoro, non c’è altro che la capacità di voltarsi indietro, di ridonare energia all’inerzia dello sguardo riconoscendo in ogni implorazione l’urgenza irresistibile e repentina di un diritto che si afferma. Simone Martini ha dipinto la peretta armonia di due gesti contrapposti: un mantello diviso a metà, lo sguardo di due uomini finalmente ricongiunti nell’unicità di un destino.
Si tratta solo di una storia umana? ... Lo sguardo del cavallo, che ha interrotto il suo procedere, è rivolto al mendico – accompagna e sottolinea quello di san Martino ... In questa stupenda figurazione ... la natura cosmica della carità ... concede all’uomo e alla bestia l’esperienza straordinaria di un’identità della visione. Entrambi, infatti, alle loro spalle hanno percepito la verità del miserabile, lo squilibrio provocato nel paesaggio da quella ferita in attesa della medicazione ...
Non è il sapere, è bene insistere su questo punto, ma il vedere, il riuscire a vedere, che è in gioco nell’operazione della carità. Nulla di più lontano dalla carità, allora, del criterio puramente addizionale che regola il sistema planetario delle “informazioni”. Bisognerebbe essere capaci al contrario: di descrivere bene una ferita, una sola irripetibile ferita ...


Chi riesce a guardare nell’altro la ferita, e a riconoscere nell’altro la bellezza, è sempre un creatore di significato, un uomo che accetta il rischio di attraversare la vita come se fosse possibile trasformare l’ombra in corpo, la lettera in spirito ... Ciò che allo sguardo del mondo può apparire come il sigillo di un mistero ostile, dal quale volgere gli occhi più in fretta che si può, nella luce della carità si rivela un segno di riconoscimento, la garanzia di un’intimità fra uomini così stretta che la ferita non appartiene più a nessuno in particolare, è una condizione possibile per chiunque in ogni momento. La ferita indica così l’umanità e soprattutto la prossimità del sofferente, che è semplicemente colui che patisce quel dolore unico e indivisibile che accomuna tutti i viventi, anche coloro che non ci fanno caso (Emanuele Trevi, Musica distante, Mondadori, Milano 1997, pp. 67-72,80-83)