L’appello che l’altro è

 Lc 10, 25-37

 Il malcapitato della parabola lucana, più che metafora delle categorie sociali bisognose, è il paradigma dell’essere umano in quanto tale che, nella sua realtà costitutiva e più profonda, è essere di bisogno che grida e attende aiuto. Egli è il rappresentante dell’alterità nuda e radicale, dove l’altro si erge di fronte all’io non più come “corpo forma” ma “de-forme” che, nel suo essere di bisogno, è messa in discussione dell’io convertendolo da desiderante a responsabile. Egli è il paradigma del volto che si sottrae al dominio dell’io paralizzandone i poteri e giudicandolo.
Ma la parabola del samaritano custodisce un senso ancora più abissale: che dal silenzio del corpo di quel malcapitato, di cui non si consoce il nome e del quale non si vede il volto e neppure si dice che gemesse e invocasse, si innalza una voce che, nella sua assolutezza, interrompe il cammino dei passanti e li convoca alla responsabilità indeclinabile: rispondere positivamente a quel grido assumendolo nella compassione oppure negarvisi restando avvinghiati al proprio io. Voce assoluta e incondizionata che, acconsentita come fa il samaritano, introduce nella “vita eterna”, l’orizzonte del Senso; mentre rifiutata, come fanno il sacerdote e il levita, esclude dallo spazio della vita.
È qui dove la parabola del samaritano svela il suo significato ultimo e sconvolgente: il luogo originario dove Dio mi parla e mi incontra convocandomi alla responsabilità e giudicandomi è l’altro nel suo essere di bisogno, l’alterità dell’altro nella sua irriducibilità al desiderio dell’io e dei suoi progetti (Carmine di Sante, Responsabilità, Edizioni Lavoro, Roma 1996, pp. 91-93).