Il dolore-spettacolo

Conosciuto il dolore qual è la terapia per rimuoverlo? Ci si deve rifugiare nel silenzio e nella riflessione, “farmaci restauratori della franta sua lena” (Carlo Emilio Gadda)? Sarebbe questo un modo per far scomparire il dolore dalla scena del mondo? Questa è la logica che ha cancellato le pubbliche lamentazioni funebri, ritenute non confacenti alla grazia e alla misura che dovrebbero accompagnare la fine della vita, ma le ha sostituite non con un riflessivo silenzio, bensì con gli applausi chiassosi che accompagnano l’uscita dalle chiese del feretro delle persone appena note. È la strategia di chi vuole allontanare dalla vista i portatori dei segni del dolore, siano essi i mendicanti o i gruppi di disabili rifiutati da un albergatore. È il disegno di chi rinchiude in quartieri lontani la vita degli sradicati, degli immigrati non accolti. È la via che porta alla costruzione di istituzioni dove il dolore viene segregato, non lenito. Né il dolore individuale, né il dolore sociale sembrano poter essere condivisi. Ma spettacolarizzati, sì. Il dolore-spettacolo è diverso dallo spettacolo del dolore. Non è solo una forma di voyeurisme, l’abitudine coltivata soprattutto dalla televisione di fornire quotidiane razioni di dolore, esibendo senza rispetto drammi privati e pubbliche mortificazioni, facendo della condizione dolente il titolo di accesso al quarto d’ora di notorietà televisiva. Nello spettatore si genera anche una forma di consolazione nel vedersi estraneo e lontano da quei dolori. Questa invadenza del dolore diventa poi una neutralizzazione del dolore stesso. Lo spettacolo trasforma il disastro in narrazione, rende le persone partecipi del dolore evitandone l’immedesimazione, limita la compassione attraverso l’ingordigia della curiosità e il piacere della notizia. Lo spettacolo intrattiene sulla sofferenza, senza che il soggetto la concepisca come una sua immanente possibilità. Lo spettacolo cancella la compassione per il dolore perché, riducendolo a rappresentazione, lo fa sentire lontano da noi. Il dolore è degli altri: noi, per fortuna, ne siamo fuori (S. Rodotà, La vita e le regole, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 217-218).