Il faticoso cammino della compassione

Per leggere onestamente la parabola di Luca 10,25-37 dovremmo non tanto identificarci nel protagonista buono, il samaritano, ma comprendere che di noi fanno parte anche il sacerdote e il levita e che i tre personaggi sono tre momenti dell’unico movimento faticoso verso un atteggiamento di vera compassione e solidarietà. Anche noi per arrivare alla vera solidarietà siamo chiamati a riconoscere le opposizioni che in noi ci sono alla solidarietà e alla compassione. Anche noi, per incontrare l’uomo che soffre, qualunque sia la sua sofferenza, dobbiamo incontrare la nostra sofferenza, la sofferenza che è in noi, il sofferente che noi siamo e averne compassione. Non basta vedere l’uomo nel dolore e nel bisogno: occorre fargli spazio in noi, far sì che la sua sofferenza avvenga un po’ in noi. La compassione è la radice della solidarietà perché essa dice: “Tu non sei solo perché la tua sofferenza è, in parte, la mia”. Possiamo dire che la compassione è il “sottrarre il dolore alla sua solitudine (E. Borgna). Davvero i tre personaggi della parabola disegnano un unico percorso e un’unica storia, quella della compassione che fatica a farsi strada in noi, nel nostro cuore. Occorre saper vedere la propria paura, la mia paura che mi impedisce di cogliere la sua, di lui che è impotente e in balia del primo che si avvicina e gli può dare il colpo di grazia. Forse la mia paura di fronte all’altro sofferente è la paura dell’isolamento in cui giace il ferito: se io accetto di incontrare in me questa solitudine spaventosa, forse potrò farmi vicino all’altro e diventare presenza nella sua solitudine. Da questo sconvolgimento interiore, da questo soffrire la sofferenza dell’altro (Luca 10,33) il samaritano della parabola è condotto a un comportamento etico in base al quale fa tutto ciò che è in suo potere per alleviare la situazione del bisognoso.


Così la compassione non resta solamente un sentimento che si impone al cuore dell’uomo, ma diviene scelta, responsabilità, solidarietà. Essa è la risposta al muto grido di aiuto che si leva dal viso dell’uomo sofferente, dagli occhi atterriti e più che mai nudi e inermi della persona soverchiata dal dolore, vicina alla morte. Nella Scrittura la compassione appare come il fremito delle viscere, la risonanza viscerale della sofferenza dell’altro, risonanza che diviene consonanza: la sofferenza dell’altro grida, e la compassione fa del mio corpo una cassa di accoglienza e di risonanza alla sua sofferenza. La compassione è il no radicale all’indifferenza di fronte al male del prossimo: in essa io partecipo e comunico, per quanto mi è possibile, alla sofferenza dell’altro uomo. L’impotenza del malato, del morente, ha la paradossale forza di risvegliare l’umanità dell’uomo che riconosce l’altro come fratello proprio nel momento in cui non può essere lo strumento di alcun interesse. In questo senso la sofferenza per la sofferenza altrui è uno dei più alti segni della dignità umana. La compassione è una forma fondamentale dell’incontro con l’altro, un linguaggio umanissimo, perché linguaggio di tutto il corpo, che coinvolge i sensi, la gestualità, la parola, la presenza personale. La solidarietà deve ricordarsi di tutto questo se vuole avere una radice nel cuore dell’uomo, nel suo intimo. il samaritano, a differenza del sacerdote e del levita, fa divenire ascolto la visione del ferito. Non solo lo vede, ma lo ascolta, lo accoglie, lo fa avvenire in sé, patisce in sé qualcosa di ciò che sta patendo lui: allora ecco la solidarietà che si manifesta e la solidarietà testimonia che ogni uomo è mio fratello. E che io ne ho la responsabilità (L. Manicardi, {link_prodotto:id=606}, Qiqajon, Bose 2004, pp. 15-16,18-19).