Pensare il nemico

 

Scrivere del nemico significa prima di tutto pensare al nemico. Cosa cui è ovviamente tenuto chiunque abbia un nemico, anche se ha perfettamente chiaro di essere dalla parte della ragione, anche se si è sicuri della cattiveria, della crudeltà e dell’errore di quel nemico. Pensare (o scrivere) il nemico non significa in alcun modo giustificarlo. Non posso nemmeno immaginare, per esempio, di scrivere sul personaggio di un nazista e trovarmi a giustificarlo, benché abbia sentito l’impulso – persino il dovere – di mettere in Vedi alla voce: amore (Mondadori, Milano 1988) un ufficiale nazista, per poter capire come un uomo comune e normale abbia potuto trasformarsi in un nazista, giustificare se stesso quel che fa e quel che passa, facendo ciò che fa. Pensare il nemico, dunque. Pensarlo con rispetto e profonda attenzione. Non solo odiarlo o temerlo. Pensarlo come una persona, una società o un popolo, distinti da noi r dalle nostre paure, dalle nostre speranze, dalle nostre ferite, dalle nostre fedi e prospettive, dai nostri interessi e dalle nostre ferite. Permettere al nemico di essere “prossimo” – fosse’anche per un solo momento – con tutto ciò che questo comporta. Potrebbe risultare utile anche dal punto di vista della condotta bellica, dall’acquisizione di informazioni essenziali, questo principio del “conoscere il nemico dall’interno”, ma può servirci anche per cambiare la realtà, cosicché questo nemico cessi gradualmente di essere tale per noi. Voglio chiarire che non sto affatto invitando ad “amare il nemico”. A tale proposito non posso dire di essere stato dotato di una così nobile longanimità. Per parte mia, intendo unicamente lo sforzo di tentare di capire il nemico, i suoi impulsi, la sua logica interiore, la sua visione del mondo, la storia che narra a se stesso. Ovviamente non è una cosa facile né semplice quella di leggere la realtà attraverso gli occhi del nemico. È spaventosamente difficile rinunciare ai nostri sofisticati meccanismi di difesa, esporci ai sentimenti vissuti dal nemico nel conflitto con noi, nella lotta contro di noi, a ciò che prova nei nostri confronti. È un’ardua sfida alla nostra fiducia in noi stessi e nelle nostre ragioni.?


Contiene il rischio di sconvolgere la “versione ufficiale”, che è per lo più anche l’unica lecita, “legittima”, che un popolo disorientato, un popolo in guerra, racconta costantemente a se stesso. Anche se forse si potrebbe capovolgere quest’ultima affermazione e dire che non di rado un popolo si trova in uno stato di conflittualità permanente proprio perché è invischiato in una determinata “versione uffciale”… C’è un altro evidente aspetto positivo in questo sforzo di guardare la realtà attraverso gli occhi del nemico. Perché il nemico vede in noi, il popolo che gli sta di fronte, le cose che ogni popolo attribuisce al nemico: la crudeltà, la violenza, la brutalità, il sadismo, la presunzione, l’autocommiserazione, l’ambiguità morale. Non di rado non ci accorgiamo di quel che “trasmettiamo” al nemico, e di conseguenza anche agli altri che non sono nemici e, alla fin fine, a noi stessi. Non di rado diciamo a noi stessi che adottiamo metodi rigidi, che ci comportiamo in modo violento e brutale solo ed esclusivamente perché siamo impantanati in una guerra, e quando questa sarà finita smetteremo immediatamente di fare così e torneremo a essere quella società e quel popolo morali, nobili, che eravamo prima. Può anche darsi, però, che proprio il nemico, colui verso il quale attiviamo quei meccanismi di ostilità e violenza, colui che ne è divenuto la vittima, stia avvertendo molto prima di noi quanto questi meccanismi siano già diventati parte integrante del nostro presente di popolo e di società. Quanto si siano ormai insinuati nelle nostre configurazioni interiori. E può anche darsi che proprio questo capovolgimento di prospettiva, il fatto cioè di vederci con gli occhi del popolo per il quale rappresentiamo i conquistatori, per esempio, possa risvegliare in noi le sirene d’allarme dandoci il modo di capire, e per tempo, il nostro inganno, il danno subito e la nostra cecità. imparando così da cosa dobbiamo metterci in salvo, e quanto è vitale per noi stessi l’urgenza di cambiare radicalmente la situazione. Perché, quando riusciamo a leggere il testo della realtà con gli occhi del nemico, allora quella realtà in cui noi e il nostro nemico viviamo e agiamo diventa improvvisamente più complessa, più realistica; possiamo riprenderci parti che avevamo espunto dal nostro quadro del mondo.


Da questo momento, la realtà non è più soltanto il riflesso delle nostre paure e delle nostre recondite aspirazioni, delle nostre chimere e della nostra ragione inappellabile: ora diventiamo capaci di vedere anche la storia dell’altro, attraverso i suoi occhi; sperimentiamo un contatto più sano e incisivo con i fatti. Aumentano così le nostre probabilità di evitare errori fatali, e diminuiscono quelle di incorrere in una visione egocentrica, chiusa e limitata. Così possiamo cogliere – in un modo che prima non potevamo permetterci – il fatto che quello stesso nemico mitico, minaccioso e demoniaco non è altro che un insieme di persone spaventate, tormentate e disperate, quanto noi. Questa scoperta, secondo me, è l’inizio necessario di un lungo processo di risveglio e di conciliazione. Questo modo di rapportarsi a noi stessi, al nemico, al conflitto in sé, alla nostra vita dentro il conflitto, questo modo di rapportarsi rappresenta secondo me, più di ogni altra cosa, un atto di rinnovata autodefinizione in quanto persone, nel contesto di una situazione la cui sostanza e i cui metodi sono disumanizzanti. Questo tipo di atteggiamento potrebbe anche restituirci quel qualcosa della nostra umanità che ci è stato sottratto con un processo rapido e cruento, di cui non sempre avvertiamo la gravità (D. Grossman, Con gli occhi del nemico, Mondadori, Milano 2007, pp. 32-38).