Il diniego

I mezzi di informazione, che ci fanno conoscere, come mai prima era accaduto, quel che succede nel mondo, ci hanno messo nelle condizioni di praticare un nuovo vizio, che rischia di passare inosservato perché molto diffuso, senza che la sua diffusione diminuisca di un grammo la sua tragicità. Questo vizio è il diniego, che consiste nel negare, nelle forme più svariate e ipocrite, l’esistenza di ciò che esiste e per giunta si conosce. Il linguaggio è un grande alleato del diniego che può essere letterale: “non è successo niente”, “non c’è stato alcun massacro’, “non sarebbe potuto succedere senza che noi lo sapessimo”; interpretativo per cui la pulizia etnica si chiama “scambio di popolazioni”, un massacro civile “danno collaterale”, una deportazione “trasferimento di popolazione”, una tortura “pressione fisica”. Oppure, ed è il più diffuso, il diniego può essere implicito e ciò avviene quando non si negano i fatti, si esclude solo che questi fatti interpellino proprio noi. I bambini che muoiono di fame in Somalia, gli stupri di massa delle donne in Bosnia, i massacri di Timor Est, i senza tetto nelle nostre strade sono fatti riconosciuti, ma non sono percepiti come un elemento di disturbo psicologico o carichi di un imperativo morale ad agire. Il diniego implicito che scatta qui è lo stesso per cui, di fronte a un incidente stradale, i testimoni si dileguano, perché “il fatto non ha niente a che fare con loro”, perché “ci penserà qualcun altro”. Ogni tipo di diniego comporta una falsificazione della nostra condizione psicologica. Nel diniego letterale non si vuole sapere ciò che si sa, in quello interpretativo si vuole evitare, attraverso una riformulazione di comodo dei fatti, di essere interpellati legalmente o moralmente, in quello implicito si visualizzano i fatti come estranei alla propria competenza, in modo da sentirsi esonerati da un pronto intervento.


Per arrivare a queste conclusioni è necessaria una falsificazione del nostro apparato cognitivo (non riconoscere i fatti che si conoscono), emozionale (non provare sentimenti di fronte a fatti che li sollecitano), morale (non riconoscere nei fatti alcuna valenza di ingiustizia o di responsabilità), e di azione (non agire in risposta a quanto consociamo). Se abbandoniamo il grande scenario della storia, per entrare nella sfera più ristretta della nostra vita privata, il diniego dilaga in tutte le sue forme in maniera insospettata. I membri della famiglia hanno una capacità sorprendente di ignorare o fingere di ignorare che cosa accade davanti ai loro occhi, sia esso abuso sessuale, violenza, alcolismo, follia o semplice infelicità. Esiste un livello sotterraneo dove tutti sanno quello che sta succedendo, ma in superficie si mantiene un atteggiamento di assoluta normalità, quasi una regola di gruppo che impegna tutti a negare ciò che esiste e si vede. Qui il diniego è il primo adattamento della famiglia alla devastazione causata da un membro, sia esso alcolista, o drogato, o pedofilo, o violento, o folle, o dedito a traffici illeciti. La sua presenza deve essere negata, ignorata, sfuggita o spiegata come qualcos’altro, altrimenti si rischia di tradire la famiglia. Qui scatta quella che potremmo definire la morale della vicinanza che è quanto di più pernicioso ci sia per la coscienza privata e, a maggior ragione, per quella pubblica.


Infatti, la morale della vicinanza, che abbiamo ereditato dall’età premoderna, dove non c’erano i mezzi di informazione e dove la società era circoscritta a piccole comunità o a piccoli gruppi, tendeva difendere il gruppo familiare o comunitario e a ignorare tutto il resto. Oggi che i mezzi di informazione ci fanno conoscere quanto accade in tutto il mondo, il persistere nella morale della vicinanza non ci consente di vivere all’altezza del nostro tempo, se non a colpi di diniego, che può assumere la forma dell’indifferenza per tutte le disgrazie che accadono lontano da noi, o la forma dell’insensibilità dovuta al fatto che fondamentalmente i miei bambini non muoiono e non moriranno di fame, e che io non sono stato né sarò cacciato di casa mia dopo aver visto mia moglie uccisa a colpi di machete. Questa consapevolezza dettata dalla morale della vicinanza finisce col sostituire alla responsabilità, alla sensibilità morale, alla compassione, al senso civico, al coraggio, all’altruismo, al sentimento della comunità, l’indifferenza, l’ottundimento emotivo, la desensibilizzazione, la freddezza, l’alienazione, l’apatia, l’anomia e alla fine la solitudine di tutti nella vita della città. Contro il diniego non dobbiamo invocare la verità che talvolta nemmeno a noi stessi possiamo ammettere, ma quel principio che la rivoluzione francese ha messo in circolazione, e che è stato finora del tutto ignorato: non l’uguaglianza, non la libertà che nel novecento hanno contrapposto la visione comunista e capitalista del mondo, ma la fraternità. L’abbondanza di informazione che è il tratto tipico del nostro tempo ci rende infatti responsabili di ciò che sappiamo e, se non diventiamo sensibili alla fraternità, di fronte a quel che sappiamo diventiamo irrimediabilmente immorali, a colpi di diniego (U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, Milano 2003, pp.107, 111-114).