Piccoli maestri di cammino

Nella sala del monastero di Pedralbes, a Barcellona– uno dei grandi monumenti del gotico catalano – che ospita una sezione della collezione Thyssen-Bornesmisza, si nota, fra i poco numerosi visitatori, una coppia di padre e figlio. Il primo è un lindo signore di circa settantacinque anni, piccolo di statura e dall’aria tranquilla, e conduce per mano l’altro, evidentemente affetto dalla sindrome di Down. I due, davanti a me, si fermano di fronte a ogni quadro e il padre spiega al figlio, sempre tenendolo per mano, la Vergine dell’umiltà del Beato Angelico, tema prediletto degli ordini mendicanti, l’ombra da cui esce il Ritratto di Antonio Anselmi di Tiziano, il canarino che scappa dalla sua gabbia nel Ritratto di un Dama di Pietro Longhi. Il figlio sta a sentire, accenna con la testa, mormora ogni tanto qualcosa; può avere quaranta o cinquant’anni, ma ha soprattutto l’età indefinibile di un bambino avvizzito. Il padre gli parla, lo ascolta, gli risponde; probabilmente è da una vita che fa questo e non sembra né stanco né angosciato, ma compiaciuto di insegnare al figlio ad amare i maestri. Giunto davanti al Ritratto di Marianna d’Austria, regina di Spagna, si china per leggere il nome dell’autore, poi si rizza di scatto e, rivolgendosi al figlio, gli dice, in un tono di voce un po’ alto: “Velázquez!” e si toglie il cappello, alzandolo il più possibile. La croce, che, con la minorazione del figlio, gli è stata gettata addosso da un’ingiustizia imperdonabile non ha curvato le sue spalle, non lo ha piegato e incattivito, non gli ha tolto la gioia di riconoscere la grandezza, renderle omaggio e farne partecipe la persona per la quale verosimilmente vive, suo figlio. Spesso il dolore stronca, inacidisce, spinge comprensibilmente a negare ciò che altri, ai quali la sorte è stata prodiga di doni, sono riusciti a creare ottenendo la gloria nel mondo; soprattutto una pena che costringe all’ombra, come quella della minorazione, rende difficile rallegrarsi e godere dello splendore raggiunto da un altro. Quel gesto rispettoso e festoso di togliersi il cappello è un gesto regale e lo è ancor più l’evidente piacere col quale il vecchio comunica il suo entusiasmo al figlio. Quell’amore paterno e filiale fa sì che quelle due persone si bastino, come si basta l’amore. È davanti a quell’uomo, che senza saperlo è divenuto per me un piccolo maestro, che c’è da togliersi il capello (C. Magris, L’infinito viaggiare, Mondadori, Milano 2005, pp. 18-19).