Credenti e non credenti
16 maggio 2023
Dal Vangelo secondo Giovanni - Gv 12,37-50 (Lezionario di Bose)
In quel tempo 37sebbene Gesù avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in lui, 38perché si compisse la parola detta dal profeta Isaia:
Signore, chi ha creduto alla nostra parola?
E la forza del Signore, a chi è stata rivelata?
39Per questo non potevano credere, poiché ancora Isaia disse:
40Ha reso ciechi i loro occhi
e duro il loro cuore,
perché non vedano con gli occhi
e non comprendano con il cuore
e non si convertano, e io li guarisca!
41Questo disse Isaia perché vide la sua gloria e parlò di lui. 42Tuttavia, anche tra i capi, molti credettero in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga. 43Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio.
44Gesù allora esclamò: «Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; 45chi vede me, vede colui che mi ha mandato. 46Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. 47Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. 48Chi mi rifiuta e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho detto lo condannerà nell'ultimo giorno. 49Perché io non ho parlato da me stesso, ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha ordinato lui di che cosa parlare e che cosa devo dire. 50E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico così come il Padre le ha dette a me»
“Il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8) Non c’è nulla di retorico in questa domanda che Gesù continua a porci: la fede non è, e non è mai stata, un dato di fatto; è una fiammella traballante, ce ne rendiamo ben conto, e spesso la vediamo affievolirsi o sparire del tutto. Che fare dunque davanti a un mondo che non crede? Come reagire all’ostilità o all’indifferenza di fronte alla fede?
Prima di tutto non condannare. “Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno” – dice il Signore. Non condannare chi non si lascia trasformare dalla parola del Vangelo. Non condannare perché Gesù non condanna; non condannare perché a non mettere in pratica le sue parole non è solo chi non crede, ma anche (e forse soprattutto) chi si bea di una fede morta, sterile di atti di umanità, ma sempre gravida di arroganza (Gc 2,17). Non condannare, riconoscendo che quella fede che tu vivi in modo così imperfetto non è un merito, semmai un privilegio. “Non potevano credere” – ci risponde l’evangelista quando siamo tentati di pensare che la fede sia una necessità, persino un dovere. Siamo invitati ad ammettere, con grande benevolenza, che per alcuni la fede è semplicemente impossibile. Ancora oggi per chi ha occhi per vedere sono molti i segni dell’amore incarnato di Dio che costellano le nostre giornate e confermano la nostra fede. Ma ogni segno che rimandi al Dio di Gesù Cristo è un segno che non si impone, mai, che accetta di essere ritenuto insignificante da chi non ha occhi per coglierlo. Non gliene fa una colpa, ma sta lì, sperando di offrire almeno l’insegnamento di un’occasione mancata.
“Tuttavia, anche tra i capi, molti credettero in lui”. Siamo incitati non solo a evitare ogni condanna, ma anche a non farci afferrare troppo in fretta da quella disperata illusione di essere gli ultimi credenti. Ci sono credenti che non sembrano tali, che sfuggono alle nostre rigide classificazioni; dei credenti in incognito, forse persino a sé stessi, ma che al momento opportuno verranno alla luce. Come quel Giuseppe di Arimatea, che credeva di nascosto, ma quando la gloria di Dio si manifestò con tutta la forza paradossale di una vita donata sulla croce si dimostrò più coraggioso degli apostoli (Gv 19,38-42).
“Io so che il comandamento del Padre è vita eterna”. Senza condannare né disperare, ciò che resta a chi osa definirsi credente è di farsi eco della Parola. Per loro, inviati da Gesù come lui lo fu dal Padre (Gv 20,21), la vita eterna non è un premio che li attende a missione compiuta, ma il comando stesso. Indipendentemente dal buon esito, quell’imperativo del Padre li fa vivere e impedisce loro di tacere ciò che hanno visto e ascoltato (At 4,20), di tenere per sé quella parola che fa ardere i loro cuori (Lc 24,32). I credenti sono chiamati a divenire segno perché la loro affidabilità sia invito delicato a confidare nel Padre; il loro amarsi gli uni gli altri la carta da visita di Colui che non è venuto per condannare il mondo ma per salvarlo.
fratel GianMarco