Amare donando

7 giugno 2020

Santa Trinità
Giovanni 3,16-18
di Luciano Manicardi

In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: 16Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio.


L’intenzione della liturgia nella domenica successiva alla Pentecoste, che pone al suo cuore la Trinità, è quella di una celebrazione dossologica dell’azione del Dio trinitario che in realtà è sempre al cuore di ogni celebrazione per cui si pone il problema della specificità di questa festa. Tuttavia, al di là degli aspetti problematici che questa celebrazione pone, celebrazione accolta nel calendario romano da papa Giovanni XXII nella prima metà del XIV secolo anche se le prime tracce risalgono al IX-X secolo, noi possiamo cogliere un messaggio importante dalle letture bibliche che in essa ci sono presentate. Queste, infatti, e soprattutto la pagina evangelica, orientano verso la contemplazione del Dio estroverso, del Dio che si comunica all’uomo, del Dio il cui amore è per il mondo, insomma del Deus pro nobis. Del resto, come si è espresso un teologo, il dogma trinitario non è altro che “lo sforzo ostinato di andare sino in fondo all’affermazione giovannea per cui ‘Dio è amore’ (1Gv 4,8)” (Rémi Brague).

Ora, il Dio celebrato in questa domenica della Trinità, il Dio biblico, il Dio narrato dal volto umano di Gesù di Nazaret, è il Dio che diviene, che muta. E diviene e muta perché è un Dio in relazione e che, nella relazione, ama. E l’amore fa divenire, mette in cammino. Quando si dice, parlando della Trinità, che Dio è amore e relazione in se stesso, cosa si indica se non che Dio ha una vita in se stesso, una vita interiore? E che la storia come contatto e relazione con altri, con il popolo, con gli umani, porta Dio a divenire: divenire mite, capace di perdono, umano. La storia di Dio nella Scrittura è la Scrittura del Dio che diviene umano, questa è l’incarnazione, la enanthrópesis, il farsi umano di Dio. Dio diviene umano, com’è umano Gesù di Nazaret, il Figlio su cui riposa lo Spirito di Dio e dunque la vera narrazione trinitaria.

Il Dio trinitario è il Dio in relazione con gli uomini ma anche e contemporaneamente che vive la dimensione interiore della relazione. Parlare di Trinità di Dio non è affatto dunque entrare in meandri teologici astratti e troppo alti, ma significa dire che il Dio biblico ha una storia, vive in una storia, si dice e si dona a umani e che questa storia incide su Dio, questi umani incidono su Dio. Non a caso il brano evangelico odierno inizia letteralmente con queste parole: “Così infatti Dio amò il mondo, che diede il suo unigenito Figlio”. Così, si sottolinea la modalità dell’amore che è anche contenuto: si parla di una forma, ma in realtà anche di un contenuto. Una modalità che è un divenire. Non è solo una forma esteriore, questa modalità, ma coinvolge il modo di essere di Dio. Il così della modalità dell’amore di Dio rinvia a quanto detto nei versetti precedenti che parlano della necessità dell’innalzamento del Figlio dell’uomo (cf. Gv 3,14-15), fondandola sulla continuità con il gesto di Mosè che innalzò il serpente nel deserto affinché chiunque lo guardasse, avesse vita. C’è dunque un così, una forma dell’amore di Dio che è anzitutto fedeltà. Fedeltà di Dio al popolo con cui si è legato in alleanza, alla storia condotta con il popolo, ai nomi umani, Abramo, Isacco, Giacobbe, e ciascuno dei volti e dei nomi dei figli d’Israele a cui Dio ha legato il suo Nome. Una fedeltà in cui la misura della misericordia sovrasta di gran lunga la misura del giudizio (cf. Es 34,6-7). Si tratta di fedeltà a colui che è infedele e di amore per colui che non vi corrisponde: la fedeltà e l’amore di Dio diventano la sua responsabilità nei confronti degli uomini peccatori. L’amore di Dio per l’uomo è unilaterale. Solo così l’amore di Dio è davvero per il mondo, per l’umanità tutta, per ogni essere umano. E solo così il suo amore, unilaterale e incondizionato, non condanna, ma salva, come sottolinea il brano evangelico odierno. Così Dio amò. La forma verbale del verbo amare, forma passata, rinvia a un evento storico preciso: la morte in croce di Gesù (cf. Rm 5,8). L’amore di Dio manifestato sulla croce assume la forma dello scandalo, dell’eccesso che, nella sua unilateralità e smisuratezza, sconvolge i parametri umani di reciprocità, corrispondenza e contraccambio dell’amore. Il dono sovrabbondante insito nell’evento della croce è il perdono di Dio, l’amore che Dio già predispone per colui che pecca e che peccherà. Così Dio amò. Il Dio che ama è anche il Dio che soffre. Donare il Figlio è mettere a rischio la propria paternità pur di non rinunciare a cercare comunione con gli uomini. Il Dio trinitario è il Dio che non sta senza l’uomo. E l’uomo, situandosi per fede in Cristo e lasciandosi guidare dallo Spirito abita l’agape, l’amore, e così conosce la comunione con Dio. Con il Dio che è amore. L’agape, infatti, è il cuore della vita trinitaria. E qui cogliamo l’ultimo momento di questo itinerario del divenire di Dio narrato nell’incarnazione, nella vita e morte di Gesù di Nazaret. Ovvero, questo atto di amore divenuto persona e vita di Gesù di Nazaret, divenuto in lui narrazione esistenziale, chiede un divenire, una conversione anche da parte dei credenti.

Cristo, come dono di Dio, è sacramento e narrazione dell’amore di Dio e, nell’itinerario da Dio all’uomo, l’amore del Padre (il Donatore) diviene l’amore del Figlio (il Dono che dona se stesso) e diviene amore nell’uomo (il donatario). Il dono che Cristo è, è asimmetrico, non cerca reciprocità: “Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi” (Gv 15,9); “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri” (Gv 13,34): il movimento della donazione divina non diviene un circolo asfittico e chiuso nell’infernale bipolarità “io-tu, tu-io” sempre esposta al rischio della violenza e della sopraffazione, ma resta aperto a un terzo di cui tende a far fiorire la soggettività e a servire la vita. Questo dono è decentrante rispetto al Donatore e si risolve in vita del donatario. L’amore che tale dono narra non è totalitario e obbligante, non pretende gratitudine, ma rispetta la libertà e la vita dell’uomo. La salvezza, non la condanna, è il fine dell’invio del Figlio da parte del Padre (cf. Gv 3,17). Questa è l’intenzione paterna di Dio, il senso del suo amore che si esprime nel dono del Figlio. E questo agire divino è normante per la chiesa. Anch’essa è mandata tra gli uomini non per giudicarli, ma per essere segno di salvezza e per narrare loro l’unica cosa salvifica e necessaria: la misericordia di Dio. Di fronte a uomini che spesso sentono la vita come condanna, la chiesa ha il compito di narrare la misericordia divina, di fare opera di liberazione, di dare senso, respiro e vivibilità.

Il dono del Figlio è volto a dare vita, non morte, agli uomini (cf. Gv 3,16). Cristo, in quanto dono per la vita degli uomini, ha vissuto la sua intera esistenza donando la propria vita, e così ha generato alla vita, ha trasmesso e suscitato vita. E questo è culminato nella morte di croce, che Giovanni chiama “innalzamento” (3,14). Come Mosè, obbedendo al comando misericordioso di Dio, innalzò il serpente nel deserto perché chi lo guardava trovasse vita e guarigione, così l’innalzamento del Figlio dell’uomo è il compimento della misericordia divina per la salvezza dei credenti (cf. 3,14-15; Nm 21,4-9). Se nel serpente innalzato il credente era condotto a riconoscere il proprio peccato guardando in faccia il simulacro di chi lo aveva punito con i suoi morsi, nel Cristo innalzato il credente vede la misericordia di Dio che perdona i suoi peccati manifestando un amore unilaterale e universalmente salvifico.

La pro-esistenza di Cristo non ha evitato il rifiuto che gli è stato opposto. Se la salvezza è destinata a tutti, solo alcuni accedono alla fede e alla conoscenza del dono di Dio in Cristo. Tale dono può essere misconosciuto e rigettato. Ma questo rifiuto non sopprime la qualità di dono che il Cristo è: conferma che esso è a servizio della libertà del donatario. Qui si rivela che il dono di Dio – gratuito ma non neutrale – diviene appello alla fede. Non a caso la prima menzione dell’amore di Dio nel quarto vangelo (3,16) è accompagnata da cinque rimandi alla fede (o alla non-fede) dell’uomo (3,15.16.18). E la distinzione tra adesione e non adesione diviene, nel prosieguo del testo giovanneo, discernimento tra luce e tenebre, tra opere fatte “in Dio” (3,21) e opere maligne (3,19: fatte nel Maligno). Questa distinzione non si situa sul piano morale e comportamentale (non si tratta di opere buone e cattive), ma designa una presa di posizione negativa di fronte all’inviato di Dio. E allora si comprende che l’unica opera essenziale secondo il quarto vangelo sia la fede. La querelle tra fede e opere è così risolta da Giovanni: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29).